venerdì 19 ottobre 2007

La maschera del demonio

Alle origini del cinema gotico italiano

Titolo originale: La maschera del demonio
Regia: Mario Bava
Anno: 1960
Produzione: Italia
Genere: horror
Durata: 84 min. (B/N)
Cast: Barbara Steele, John Richardson, Ivo Garrani
Voto: 8

Nel panorama della cinematografia italiana esistono autori declamati che rimarranno, con ogni probabilità, impressi nella memoria comune (oltre che sulla celluloide) in eterno. Esistono poi personaggi ingiustamente dimenticati, nonostante il loro contributo alla settima arte sia stato fondamentale. Fortuna che all’estero (Stati Uniti e buona parte dell’Europa) si ricordano ancora di un “piccolo e modesto” ometto che, da abile artigiano qual era è riuscito a trasformarsi in geniale artista, approfittando della metamorfosi che, tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio dei Settanta, coinvolse la società italiana, scandita – in buona parte – dalla nascita e diffusione della televisione. Il tanto discusso elettrodomestico accelerò il processo di laicizzazione mostrando a un pubblico in piena fase di ripresa post bellica e conseguentemente altamente ricettivo, un costume più spregiudicato e disinibito. L’opera di Mario Bava, attivo come regista dal 1960 al 1980, si inserisce proprio in questo contesto: dall’avvento della televisione di Stato al proliferare delle tv private, dalla produzione di melodrammi sentimentali imperante fino agli anni Cinquanta all’avvento dell’erotismo e della violenza che domineranno le pellicole degli anni Sessanta e Settanta. Cambiava il popolo, il modo di pensare e cambiavano le componenti delle storie che coinvolgevano il popolo stesso; una trasformazione veicolata soprattutto da due generi che conobbero il loro apice commerciale proprio in quel periodo: la commedia e l’horror. A Bava spetta, con unanimità di pensiero, la responsabilità dell’invenzione del cinema gotico italiano, e il primato (insieme a Riccardo Freda) per aver infranto il divieto di produrre pellicole appartenenti a un genere non gradito al regime fascista. Se è pur vero che il maestro ligure (sanremese per la precisione) attinge a piene mani dalle gesta di produzioni estere – quelle a lui contemporanee dell’inglese Hammer, e quelle più classiche della Universal degli anni Trenta e Quaranta – è altrettanto vero che riesce a permeare ogni sua opera con uno stile unico e originale, che nega il carattere di puro intrattenimento posto all’origine, grazie al connubbio di tre elementi differenti: il fantastico, l’ironia e la ricerca visiva, miscelati a una grande preparazione tecnica acquisita in anni di attività all’Istituto Luce, dapprima nel ruolo di operatore, poi come direttore della fotografia e in seguito come capo del reparto trucchi, imponendosi come realizzatore di effetti speciali. Tutta la sua abilità è condensata in questo monumentale esordio: “La maschera del demonio” sottolinea anche la sua capacità di stravolgere un’idea di partenza, di rielaborare una sceneggiatura che, tratta da un racconto di Gogol carico di ironia, atmosfere surreali e atteggiamenti fantastici, si trasforma in un condensato di crudeltà, ribrezzo e macabro. Avvolto da un paganesimo atavico ammantato di Romanticismo risulta totalmente estraneo all’opera originaria di Gogol. Unico elemento a permanere è quel senso di precarietà tipico delle rappresentazioni della nobiltà russa che avrà in Checov uno dei suoi massimi cantori. Non mancano i riferimenti al Dracula letterario e all’eterna contrapposizione tra Bene e Male, ma l’elemento centrale ruota attorno alla minaccia al tabù morale, prodotto dal “mostro” sotto forma di provocante fanciulla, attraverso comportamenti sessuali giudicati dalla società (e a maggior ragione da quella di quarant’anni fa) devianti e perversi, creando un effetto di repulsione-attrazione per mezzo di immagini “scandalose”. Tema che resterà predominante per quasi un ventennio, almeno finché il pubblico non risulterà sufficientemente smaliziato e avrà bisogno di ben altri incubi e paure per poter essere appagato in modo soddisfacente. Ad incarnare questo seducente terrore troviamo una giovane quanto affascinante Barbara Steele, che con i suoi particolari lineamenti, avrà un ruolo fondamentale nella nascente poetica della “ginecofobia”, come è stata definita da alcuni esperti del cinema di quel periodo. La struttura della pellicola è contraddistinta da una sorta di dicotomia riscontrabile sia nella caratterizzazione dei personaggi (su tutti, ovviamente, il doppio ruolo della protagonista), sia in quella dei luoghi: la contrapposizione tra la locanda (e il villaggio che essa rappresenta) e il misterioso castello è un altro chiaro rimando alla letteratura Ottocentesca. Ma Bava, con un’intuizione geniale, si diverte a mettere in discussione certe convenzioni, associando, per quasi tutta la durata del film, il male alla luce – basta pensare al volto della strega Asa, nella seqenza iniziale che mostra la sua esecuzione, illuminato da un bagliore quasi “sacro” – paragonato al buio che avvolge i sarcedoti – che starebbero invece a simboleggiare il bene. Il castello e i giardini che lo circondano appaiono in evidente disfacimento e simboleggiano il degrado morale degli stessi personaggi. Gli altri immancabili ambienti, comuni ad ogni classico film horror, sono il bosco dalla fitta vegetazione che avvolge la carrozza su cui viaggiano i due dottori, e il cimitero, luogo sconsacrato, da cui risorgono le vittime della strega per compiere il suo volere. Bava condisce tutto con un bellissimo bianco e nero che gli permette oltretutto di mostrare quello che, fino a prima di lui, veniva considerato non mostrabile, restituendo al genere fantastico quella fisicità che gli appartiene di diritto. Il bianco e nero assurge a nuovo mezzo comunicatore mantenendo immutato, al contempo, il fascino del suo gusto retrò. Per accorgersi della grandezza di quest’opera è sufficiente recuperare il dvd edito dalla RHV e ammirare, oltre al film, il documentario “Mario Bava: Maestro of the Macabre”, ascoltare le testimonianze di registi come Tim Burton, John Carpenter o Joe Dante, che tessono giustamente le sue lodi, così come nessun altro in Italia ha mai fatto sufficientemente e, magari, commuoverci per un passato remoto che non tornerà più.

Articolo di Davide Battaglia
pubblicato su Viaggia l'Italia n°35, Clementi Editore, dicembre 2006

lunedì 15 ottobre 2007

Planet Terror

L'allievo supera il maestro

Titolo originale: Planet Terror
Regia: Robert Rodriguez
Anno: 2007
Produzione: USA
Genere: horror/fantascienza
Durata: 115 min.
Cast: R. McGowan, M. Shelton, M. Parks, F. Rodriguez, J. Brolin, B. Willis, Q. Tarantino
Voto: 8

Giudizio personale e per questo opinabilissimo, ma se il più capace, elaborato e colto Quentin, nel suo Death Proof, rimane un po' indeciso su quale direzione prendere, appesantendo il suo film da un paio di scene estremamente lunghe e noiose, condite da dialoghi non all'altezza della sua fama, il figliol prodigo Robert centra in pieno il bersaglio con il suo esageratissimo contamined movie, che strizza l'occhio al cinema di Lenzi (in particolare al trashone "Incubo sulla città incontaminata"), di Romero, di Carpenter e al suo "Dal tramonto all'alba".
La trama di questa nefanda meraviglia è quanto di più banale e stereotipato possa esistere: una preoccupante e misteriosa arma chimica, dall'aspetto di una nube verde, si propaga in una cittadina statunitense di provincia, causando mutazioni in quasi tutti gli abitanti, fino a trasformarli in creature simili a zombie. Fortunatamente, non tutti vengono colpiti dalla nube; tra questi, Cherry (Rose McGowan), una ballerina di go-go dance e il suo ex ragazzo Wray (Freddy Rodriguez), tenteranno di porre fine alla minaccia dei mutanti affrontando anche con un battaglione dell'esercito comandato da un ufficiale senza scrupoli (Bruce Willis).
La bravura di Rodriguez risiede nel fatto che la sua pellicola, presentando tutte le caratteristiche tecniche riscontrabili in quella di Tarantino (graffi, spuntinature, bobine che sono andate perdute o che, improvvisamente, prendono fuoco... con tanto di messaggio di scuse), può giovare di un maggiore ritmo, di una maggiore ironia, di una maggiore tensione e, grande sorpresa, perfino di una sottotrama amorosa, particolarmente azzeccata.
Che il film risultasse un grande giocattolone con l'unico scopo di divertire, si sapeva, ma che il regista fosse in grado di metterlo in scena con questa enorme carica ironica, non era altrettanto scontato. Fatto che rende "Planet terror", per certi aspetti, perfino superiore a "Dal tramonto all'alba".
Insomma, il difetto della metà di Tarantino risiede nel fatto che in alcuni casi sembra volersi prendere troppo sul serio e di cadere in qualche autocelebrazione di troppo; il pregio di quella di Rodriguez, seppure il tipo di pellicola probabilmente si prestava di più già in partenza, è invece quello di dimostrarsi totalmente divertente e folle, dal primo all'ultimo fotogramma.
Tutte queste considerazioni, devono essere prese per quello che sono e tenere presente il fatto che, in Europa, siamo stati costretti a visionare (colpa dello scarso successo al botteghino negli USA) un'opera diversa da come era stata concepita inizialmente.
Rimane la constatazione che l'operazione nel suo complesso merita un plauso e possa dirsi felicemente riuscita, non limitandosi a una semplice riproposizione di un genere che oggi non esiste più, né tantomeno a una banale parodia.
Grindhouse è un atto d'amore verso il cinema... esattamente come lo è 8 e 1/2 di Fellini.

Davide Battaglia

martedì 2 ottobre 2007

Hajime Sorayama

Lei, robot
Nato in Giappone nel 1947, Hajime Sorayama si laurea nel 1968 presso la Chuo Art School di Tokyo, e fin dai primi anni Settanta dà inizio alla sua brillante carriera, ampiamente documentata attraverso numerose pubblicazioni e mostre internazionali. Sorayama è infatti uno dei leader indiscussi nel campo dell'arte erotica, a livello erotica mondiale. Con il solo uso del pennello e della matita realizza opere che esplorano il tema dell'erotismo incentrandolo sull’esaltazione del corpo femminile, accarezzandone le infinite varianti: dal glamour ultrapatinato allo stile retrò delle pin-up, fino alle più moderne tendenze delle donne cyborg e dell'estetica fetish di ultima generazione.
L'autore è famosissimo per le sue illustrazioni, al punto tale che è stato adottato il termine super-realismo, per definire il suo stile in un connubio di fantasia e immagini reali tanto sottile da lasciare il dubbio se le sue opere siano fotografie rese disegni. Le sue illustrazioni si differenziano in due correnti: quella che ripresenta la sensualità del corpo femminile e quella che affronta il tema della tecnologia futuribile. È naturale pensare che le due correnti spesso si fondano in rappresentazioni che pescano a piene mani dalle varie simbologie dell'erotismo, della mitologia, dalla biomeccanica e dalla fantascienza. La sua tecnica è molto raffinata: l'artista incide su fogli d'acrilico i contorni e i tratti principali del disegno, evidenziando solo alcuni particolari.
Il suo primo libro dal titolo "Sexy Robots" risale al 1983. A questo hanno fatto seguito una ventina di straordinari volumi, tra cui l’omonimo "Hajime Sorayama" (pubblicato dalla Taschen nel 1989), "Venom" (uscito nel 2004 in ben quattro edizioni e lingue diverse), fino al recentissimo "Relativision", pubblicato nel 2007.
La prima mostra personale di Sorayama si è tenuta nel 1988. Da allora, l’artista ha esposto svariate volte in Giappone, negli USA, dove nel 1996 gli fu assegnato il prestigioso premio Vargas Award, e in Germania (a Monaco e Colonia). Il 2005 ha visto la sua prima esposizione a New York, oltre all'apertura di un vero e proprio showroom dedicato interamente alla sua arte. Tra i più recenti successi di Sorayama, va anche ricordata la realizzazione per la Sony di "AIBO", il cucciolo di cane robot, oggi entrato a far parte della collezione permanente del MOMA, per il quale l'artista ha ricevuto due importanti riconoscimenti: il "Good Design Grand Prize Award" e il "Media Art Festival Grand Prize Award". Si sta concludendo proprio in questi giorni a Roma, presso la Mondo Bizzarro Gallery, la prima personale italiana di questo artista giapponese.
www.sorayama.net

venerdì 28 settembre 2007

Proprio a te


Se ti dicessi che quello che stai leggendo non è un racconto, ci crederesti? Questa è una confessione… no, anzi… è molto di più. Puoi ritenerti un privilegiato perché almeno quando accadrà, saprai qualcosa in più degli altri.
Lo so che stai pensando che è solo una trovata stilistica e, probabilmente, nemmeno tanto originale, ma è proprio questo il bello. Posso dire tutto quello che voglio, tanto chiunque penserà ad un banale racconto. Solo io so qual è la verità… in ogni caso la mia coscienza resterà pulita e queste righe si confonderanno tra milioni di altre sparse nella rete, tra una miriade di siti come questo. È il mio piccolo potere. Ti piacerebbe sapere che mentre scrivo, i miei polpastrelli stanno insozzando di sangue la tastiera… è scuro, sai? Più scuro del rosso che avevo immaginato. E poi, lo sai che sensazione ti da, stringere un cuore tra le mani e sentirlo ancora pulsare, spremerlo al punto da farlo scoppiare? No, cosa vuoi sapere tu… continua pure a leggere al sicuro nella tua cameretta o nel tuo ufficio… attento però che il capo non se ne accorga! Ti senti così estraneo agli orrori del mondo… cosa vuoi che capiti, proprio a te?! Sai cos’è un’altra cosa divertente? Anche lo stronzetto che se ne sta qua per terra col torace aperto in due, pensava la stessa cosa, qualche attimo prima… Credi che sia un mitomane? Un pazzo? Un semplice maniaco? No… io sono qualcos’altro, sono materia generata dalla tua stessa mente. Sono qua, scorro tra i cavi, sotto i tasti, tra i pixel. Credi che sia facile vivere così? Che sia possibile per un essere umano? Continui a non prendermi sul serio, lo so… è inutile che fingi di essere interessato!
Vuoi vedere che ora cambi idea?!
Dai, girati...

Componimento di Davide Battaglia (agosto 2004)
Finalista al concorso “300 parole per 1 incubo” - 3a edizione - www.scheletri.com

mercoledì 22 agosto 2007

L'ultimo uomo della Terra

Quando Vincent sbarcò in Italia

Titolo originale: Last man on earth
Regia: Ubaldo Ragona – Sidney Salkow
Anno: 1964
Produzione: Italia-USA
Genere: horror/fantascienza
Durata: 86 min.
Cast: Vincent Price, Franca Bettoja, Giacomo Rossi Stuart
Voto: 7,5

Fino all’ultimo non sapevo se scrivere qualcosa sul film o sul romanzo. In effetti, almeno negli ultimi tempi, guardo molti più film di quanti libri legga, seppure sia fermamente convinto (e non sono certo l’unico) che, nella maggior parte dei casi, la carta sia più forte – artisticamente parlando – della pellicola.
Insomma, come al solito mi ritrovo a parlare del film, ma questa volta la motivazione è più che valida. Seppure anche in questo caso il libro sia decisamente superiore, c’è anche da dire che è un libro piuttosto celebre e su cui sono state già scritte parecchie cose, mentre il film (che è un buonissimo film) è stato sempre snobbato, se non addirittura dimenticato.
Qualcuno recentemente l’ha riscoperto (il sottoscritto compreso) grazie ancora una volta a quel piccolo e magico oggetto che risponde al nome di dvd.
Sto parlando de “L’ultimo uomo della Terra” di Ubaldo Ragona (o come dice Dardano Sacchetti nel documetario che compare negli extra, di Sidney Salkow) e del suo corrispettivo cartaceo, “Io sono leggenda” (qualcuno però lo conosce con il titolo della sua prima - e infedele - traduzione italiana, “I vampiri”) di Richard Matheson.
La genesi di questo piccolo gioiellino è abbastanza travagliata: la prima sceneggiatura di Matheson fu rifiutata dalla inglese Hammer che cedette il progetto all’americana "Associated Producers Inc.". Quest’ultima lo propose all’italiana "Produzioni La Regina", la quale accettò la collaborazione imponendo però parte del cast e della troupe. Se dalle fonti appare difficile attribuire la regia a Ragona o Salkow, è più che probabile che la verità stia nel mezzo e che il passaggio di testimone sia stato dovuto all’insoddisfazione del divo Vincent Price nei confronti della produzione italiana.
C'è da dire che anche Matheson non rimase particolarmente soddisfatto del lavoro e scelse così di firmarlo con lo pseudonimo di Logan Swanson.
A discapito delle tante critiche dell’epoca che ne hanno sicuramente compromesso il successo e seppure non raggiunga la complessità, l’angoscia e la forte critica sociale del romanzo, “L’ultimo uomo della Terra” è un film notevole, girato con pochi soldi in uno splendido e quasi gotico bianco e nero all’Eur di Roma, resa dall’abilità di Franco Delli Colli così spettrale e inquietante come mai prima (ma neppure in seguito, direi) si era vista al cinema.
Un film notevole anche perché antesignano dei tempi e precursore di tutto il filone zombesco (i “vampiri” con cui ha a che fare Vincent Price assomigliano molto agli zombi romeriani), oltre che di quello catastrofico o apocalittico.
Importante per la metafora, ripresa appunto da George Romero quattro anni più tardi ne “La notte dei morti viventi”, dell’uomo asseragliato dietro le sue paure, ma anche per il suo valore simbolico (quasi mistico) rappresentato dall’uomo illuminato che si proclama salvatore dell’umanità e che invece si ritrova ucciso da moderni farisei.
Opprimente, malinconico e profondamente pessimista, in una parola: consigliatissimo. Tenetelo a mente quando, prossimamente, sarà proiettato “I am legend” di Francis Lawrence, con Will Smith protagonista.

Davide Battaglia

martedì 24 luglio 2007

2010, l'anno del contatto

Storia di un sequel incompreso

Titolo originale: 2010: the year we make contact
Regia: Peter Hyams
Anno: 1984
Produzione: USA
Durata: 114 minuti
Genere: fantascienza
Voto: 7

Esistono tante forme di delitto e, nella maggior parte dei casi, non si tratta mai di "delitto perfetto". C'è sempre un impercettibile dettaglio che sfugge anche al più scaltro e freddo fuorilegge che conduce gli inquirenti sulle sue tracce, condannandolo al più classico degli epiloghi.
Ci sono poi delitti che di perfetto non hanno nulla e che, anzi, nel
loro folle percorso disseminano una quantità tale di indizi da autocondannarsi fin dalla prima mossa. In campo cinematografico, la perfetta esemplificazione del delitto imperfetto - il gioco di parole è voluto - è secondo me rappresentata da Jerry Lundegaard, il venditore di auto del Minnesota inguaiato dai debiti, che nella pellicola "Fargo" dei fratelli Coen, commette una serie di errori macroscopici che precipitano in una spaventosa scia di sangue che porterà la poliziotta Marge Gunderson ad arrestarlo con una facilità disarmante.
Questa premessa, che poco o nulla c'entra sia con la fantascienza, sia con il film di Peter Hyams, era necessaria per esprimere le titubanze che, all'epoca dell'uscita di "2010, l'anno del contatto" colsero una grossa fetta di pubblico e critica (perlomeno quella parte che considera "2001, Odissea nello spazio" come la più alta espressione d'arte del secolo scorso).
Solo un pazzo può pensare di mettere mano al più grande capolavoro della storia del cinema e credere di restare indenne. Ecco perché già dal momento in cui si pensò di realizzare il sequel di 2001 si stava commettendo il più atroce e imperfetto dei delitti, destinato a non rimanere impunito a lungo.
Delitto che risulta ancora più insopportabile se poi viene inteso come tentativo di spiegare (e quindi banalizzare) l'opera di Kubrick.
Il problema di fondo di questo film è proprio quello di essere considerato normalmente come il seguito di quello del grande regista inglese, dimenticando totalmente che esiste uno scrittore (e per di più scienziato), tale Arthur C. Clarke che, partendo dal suo racconto "La sentinella" ha, in seguito, realizzato una quadrilogia di romanzi di cui "2010: Odissea due" è il secondo capitolo (esistono poi "2061: Odissea tre" e "3001: Odissea finale").
La pellicola di Hymas è in effetti la fedele trasposizione di questo libro che, a differenza del suo illustre predecessore, non vuole entrare nei meandri della psiche umana o porre domande che ancora oggi, a distanza di quarant'anni, non hanno ricevuto risposte (anzi qualcuno si sta ancora chiedendo esattamente quali fossero queste domande), ma vuole essere sostanzialmente una storia di fantascienza classica, o "hard" se preferite, termine che non ha nulla a che intendere con le "luci rosse", ma sta a significare la stretta correlazione con la verosomiglianza scientifica.
Certo, non mancano i riferimenti a una vita (entità?) superiore e alla nietzscheana figura del superuomo, impersonata dal "redivivo" Dave Bowman, ma sono episodi sporadici che si insinuano in una trama abbastanza lineare.
In questo senso e dimenticandoci (so che è più facile a dirsi che a farsi) per quelle due ore scarse dell'"ingombrante" sagoma del Maestro, 2010 è un film godibilissimo che tiene incollati allo schermo con il suo crescere di tensione, le sue spettacolari immagini e la sua miscela di azione e introspezione psicologica.
Resta solo una domanda che Hymas ha volutamente lasciato in sospeso: come si evolverà la vita su Europa?
Spero che il terzo romanzo di Clarke dia qualche risposta, perché, per ora, nessuno ha osato realizzare un terzo film sull'Odissea...

Davide Battaglia

venerdì 20 luglio 2007

Lettera anonima


Baltimora, 21-12-2024 ore 22:37

Quando leggerete queste righe, caro Ed, e caro mio disilludente amore, non sarò più tra voi. Non sarò nemmeno più su questa Terra, probabilmente, ma non temete per me, non sarò morto, o perlomeno non nel senso che intendete voi.
Mi rivolgo a te, Ed… mi è più facile. Ho conosciuto il più grande mistero dell’universo e ho scoperto che ne facevo parte anch’io, ero stato destinato fin dal primo giorno della mia vita. Non è stata un’esistenza inutile e mediocre come pensavo! Non ho sprecato tutti questi anni invano… anni trascorsi a comporre pezzi che nessuno si è mai degnato di considerare. Adesso ne ho la certezza Ed: ce la farai anche senza di me.
Dove sto andando non mi serve nemmeno la mia vecchia Les Paul. È tua amico, fanne buon uso.
La Re Cremisi esiste davvero… cazzo se esiste! È arrivata lunedì al crepuscolo e si è ormeggiata al quinto ponte est, quello dismesso da anni. Nessuno la poteva vedere tranne me ed è stato allora che ho capito. Ho capito che era venuta a prendermi! Salpiamo tra meno di un’ora e faremo rotta per una destinazione che non mi è ancora dato sapere… l’unica cosa che so è che non esistono limiti per quella nave.
Non mi è concesso dirti cosa ho visto là sopra, sappi solo che è meglio di tutti gli orgasmi che tu possa avere provato nella tua vita.
Lo sai che la mia fede non è mai stata granché, ma adesso credo che Dio esista! È stato lui a creare la musica. Ma se anche fosse stato il demonio… dopo quello che ho visto, che io possa bruciare all’inferno per l’eternità!
Non mi odiare Ed, io ti voglio bene. Dai un ultimo bacio da parte mia ad Alice. Addio.
Kurt

Componimento di Davide Battaglia (marzo 2000)
realizzato per il conocorso "Scrivilamusica", la musica e il mare,
Comune di Genova

mercoledì 18 luglio 2007

Blade Runner's birthday

25 anni fa nasceva il capolavoro di Scott

Lo scorso 26 giugno Blade Runner ha compiuto 25 anni. Era il 1982, infatti, quando la pellicola diretta da Ridley Scott si accingeva a debuttare nella programmazione delle sale americane. In quell'anno il film non ebbe forse il successo pieno e completo, impegnato com'era a vedersela contro un "colosso" come ET di Steven Spielberg, ma nel corso del tempo si è impresso in maniera indelebile nell'immaginario degli spettatori, fino a diventare il film di culto che è ora, responsabile, insieme a 2001 di Kubrick, di aver aperto nuove frontiere alla visione cinematografiche della fantascineza, nonché al cinema in senso assoluto.
Manifstazioni per celebrare l'evento si sono sprecate in tutto il mondo, ma il regalo che tutti i fan aspettano con ansia si concretizzerà solo dopo l'estate, e si tratterà dell'ennesima versione del film.
Come era già avvenuto nel 1992, con la proiezione nelle sale di Blade Runner, The director's cut, per festeggiare il decennale, Blade Runner, The final cut rinizierà a fare il giro del mondo a partire dal prossimo settembre. Si tratta di un'ulteriore rieditazione della pellicola originale, al cui montaggio ha rimesso mano lo stesso regista, a cui si dovrebbero aggiungere altre scene inedite appositamente girate. Avremo quindi il piacere di riassaporare il leggendario duello tra Harrison Ford e Rutger Hauer con una nuova qualità d'immagine, e riascoltare il mitico monologo dell'androide ribelle con tutta la purezza del suono restaurato.Tutto ciò, e molto altro, verrà ovviamente messo in commercio anche in Dvd, in un cofanetto che si annuncia veramente speciale.
Sarà banale e scontato ma questo film ha cambiato la mia vita di cinefilo e di amante del mondo del fantastico ed è quindi con grande gioia che l'Interstellar Overdrive si unisce al coro di milioni di appassionati e augura buon compleanno a Blade Runner...
Speriamo in altri cento o mille di questi giorni, senza però augurarci altrettante riedizioni...

fonte: www.fantascienza.com

mercoledì 27 giugno 2007

Memento

Senza passato nemmeno il futuro ha senso

Titolo originale: Memento
Regia: Christopher Nolan
Sceneggiatura: Jonathan Nolan
Anno: 2000
Produzione: Usa
Durata: 113 minuti
Genere: thriller
Voto: 9

Leonard Shelby (Guy Pearce), ha una rara malattia che gli impedisce di memorizzare nuovi ricordi per più di un quarto d'ora. Questo sembra essere dovuto a un incidente avuto durante un’aggressione nella quale sua moglie è stata stuprata e uccisa. Infatti Leonard ricorda tutto solo fino a quel terribile giorno. Nella sua vita distrutta, l’unico scopo rimasto è quello di rintracciare e punire quell’assassino. Foto Polaroid, appunti, tatuaggi, sono i mezzi attraverso cui tenta di costruire una griglia di ricordi, resistente all'ambiguità dell'indagine e alla volatilità della malattia, che gli consenta, forse, di arrivare a una qualche verità. Lo aiutano un uomo che dice di essere un vecchio amico (Joe Pantoliano) e una ragazza che afferma di aver sofferto come lui (Carrie-Anne Moss).
Christopher Nolan, per poter accedere ai faraonici budget di “Insomnia” e, soprattutto, “Batman Begins”, ha convinto produttori e star hollywoodiane del suo talento con questo (nemmeno troppo piccolo) gioiello. Sceneggiato dal fratello del regista, Jonathan, e basato su un suo racconto originale, “Memento” trova la sua maggiore forza proprio in uno script originalissimo e complesso, grazie a una costruzione “progressiva” ricca di flashback e flashforward, di alternanza di bianco e nero e colore, estremizzando il concetto che Tarantino ha rappresentato in “Pulp Fiction” (onestamente già collaudato nel 1956 da Kubrick in “Rapina a mano armata”), di scombinare ad arte la cronologia dei fatti in funzione della trama.
Raccontare la storia “al contrario” non è una scelta sensazionalista o votata all’autocompiacimento: è l’unico modo possibile per immedesimare lo spettatore nel profondo senso di spaesamento e lacerazione interiore di cui Leonard è vittima, del suo quasi patetico tentativo di opporsi con metodo e costanza a un disturbo che renderebbe impossibile la vita a chiunque.
Oltre a essere un ottimo thriller che ricorda le migliori atmosfere di un noir d’altri tempi, questo film è soprattutto una riflessione sulla fragilità umana, sulle ataviche domande che ci poniamo tutti. A queste domande solo il passato può rispondere; senza di esso perde significato anche il presente e il futuro non esiste nemmeno.
Forse è per questo che, spesso, si mente a se stessi, costruendo ricordi e azioni fittizie che ovattino il presente e diano spinta al futuro. Il dramma di Leonard è lo stesso di chi, senza bisogno di essere affetto da una simile malattia, non accetta se stesso e preferisce negare i propri sentimenti, nascondendoli sotto il velo della vergogna. In effetti, a chi non è mai capitato di desiderare di cancellare anche solo un giorno della propria vita per potersi difendere da passati scomodi?
Difficile però a conti fatti poter mantenere la propria identità negando pezzi che, volente o nolente, fanno parte di noi.
Ecco che l’indagine di Leonard diventa l’unico movente che giustifichi ancora un’esistenza compromessa per sempre. Ecco che per ricostruire il complicato puzzle della sua vita ha bisogno dell’aiuto dell’amico Teddy (un ottimo Joe Pantoliano). Potrà davvero però fidarsi di lui e di tutte le altre persone che li ruotano attorno? Come Leonard, anche noi, nelle nostre vite quotidiane, dobbiamo affrontare domande alle quali, non sempre, possiamo dare risposte.
Memento è un film che, vista la sua complessa struttura, richiede massima attenzione e probabilmente necessita anche di più visioni per essere compreso nella maniera adeguata. Però questo non è un difetto, ma una caratteristica comune a tanti capolavori.

Recensione pubblicata anche su www.scheletri.com (gennaio 2006)

Davide Battaglia

venerdì 15 giugno 2007

Conan, il ragazzo del futuro

Tutto deve ricominciare…

Titolo originale: Mirai ShOnen Conan
Regia: Hayao Miyazaki, Keiji Hayakawa, Isao Takahata
Animazione: Hayao Miyazaki, Yasuo Otsuka
Anno: 1978
Produzione: Giappone
Durata: 26 episodi da 25 min.
Genere: fantascienza

Se i calcoli sono esatti, tra poco meno di un anno – quindi nel 2008 – dovrebbe esserci la fine del mondo. Almeno per come lo intendiamo noi oggi. Il tutto sarà causato da una terza guerra mondiale combattuta a base di bombe magnetiche (ben più potenti e distruttive di quelle atomiche!) che distruggeranno in poche ore la superficie terrestre… perfino l’asse di rotazione del nostro pianeta verrà spostato e i continenti si frattureranno inabissandosi negli oceani.
Solo poche persone riusciranno a salvarsi e rimarranno isolate nei pochi territori emersi… dovranno ricominciare da zero, ma, come sempre, l’ostinazione del genere umano avrà il sopravvento e in qualche modo riusciranno ad andare avanti.

In poche parole questo è lo scenario in cui si muove Conan (non il barbaro, ovviamente), un ragazzino di undici anni nato dopo la catastrofe su un’isoletta (chiamata l’isola perduta) dove un gruppo di astronauti precipitarono nel tentativo di scappare fuori dall’orbita taerrestre.
Siamo nel 2028 e Conan vive con suo nonno, l’unico degli astronauti sopravvissuti, conducendo un’esistenza semplice e intimamente legata alla natura, credendo che non esistano altri essere umani sulla Terra.
Il ritrovamento, sulla spiaggia della piccola isola, di una ragazza priva di sensi, sconvolgerà la vita di Conan…
Lana, questo il nome della ragazza, rivela che molte altre persone sono sopravvissute alla catastrofe, e che nella sua isola di Hyarbor la gente vive in pace e armonia, anche se minacciata dall’aggressiva società di Indastria, praticamante l'unica città-stato ancora basata sulla tecnologia rimasta sulla Terra.
Conan conoscerà ben presto le cattive intenzioni di questa fantomatica Indastria dal momento che un’aereo partito proprio da lì giungerà sull’isola perduta, ucciderà il nonno e rapirà Lana, dando il via a un’avventura lunga 26 episodi (quasi 11 ore).

Quando Conan apparve per la prima volta sugli schermi televisivi italiani – anche se ero ancora un pivello (come tutti quelli della mia generazione) – ci rese conto di essere innanzi a qualcosa di leggermente diverso dai soliti robottoni alla Go Nagai (per carità, non sputerò mai nel piatto in cui ho mangiato per tanti anni, ma Ufo robot, Mazinga & Co. non hanno un’unghia dello spessore che può vantare il cartone di Miyazaki).
L’elevata qualità artistica e tecnica di questa serie animata sorprende se si pensa che in quegli anni la televisione (soprattutto quella di intrattenimento per l’infanzia) stava muovendo i primi passi e non è un caso che, nonostante Conan sia rimasta (fortunatamente) una mini serie senza seguiti o prequel, a differenza dei più popolari anime, abbia un folto numero di estimatori, non solo tra i nostalgici trenta-trentacinquenni che la guardavano da infanti, ma anche tra gli adolescenti di oggi, più smaliziati e abituati a ben altri prodigi di tecnica, rispetto ai loro coetanei di fine Settanta.
Le ambientazioni fuori dai canoni tradizionali (molti i riferimenti al paesaggio e all’architettura degli anni Quaranta, chiaro rimando alla Seconda Guerra Mondiale e al disatro atomico di cui il Giappone fu vittima) e le tematiche ambientaliste (facile distinguere la dicotomia bene-male, la prima rappresentata dai contadini e dalla natura, mentre la seconda, dall'industria e le macchine) lo rendono uno dei prodotti di animazione più interessanti dell’intera produzione giapponese e all’epoca rivelarono la bravura e la delicatezza di un autore come Hayao Miyazaki, destinato col tempo ad essere riconosciuto come il più grande regista giapponese di – adoro questo termine che oggi non si usa quasi più - “cartoni animati”.
Personalmente, nel rivedere qualche episodio a distanza di più di vent’anni, ho notato quanto la nostalgia per il passato sia il tema portante di tutta la storia che, seppure nella sua semplicità, riesce a portare lo spettatore a riflettere.
Non per mezzo del solito buonismo che accumuna tante produzioni di oggi, ma con qualcosa di più profondo e raro.
Un piccolo gioiello da riscoprie.

Davide Battaglia

mercoledì 6 giugno 2007

Mulholland drive

Un incubo ad occhi semichiusi

Titolo originale: Mulholland drive
Regia: David Lynch
Anno: 2001
Durata: 145 minuti
Produzione: USA
Genere: drammatico/surreale
Voto: 9

Ecco che, come avevo anticipato il giorno che ho inaugurato questo blog, l'Interstellar Overdrive compie il suo primo viaggio fuori dall'orbita della fantascienza.
Per farlo ho scelto qualcosa di molto impegnativo e, in realtà, non così lontano dalle tematiche che regolano le opere fantastiche. Sto per parlare di Lynch e, in questo caso, ogni etichetta, ogni schematizzazione, ogni tentativo di classificazione - passatemi l'eufemismo, sempre che non venga censurato - va a farsi fottere.
Difficile, veramente difficile scrivere qualcosa su quest’opera di David Lynch, senza rischiare di cadere nel banale (riempendo la recensione di aggettivi quantomai abusati) oppure di perdersi negli intricatissimi risvolti narrativi (cercando magari di dare una, o peggio ancora, diverse interpretazioni a ciò che si è visto).
In questo percorso tortuoso è perfino arduo capire dove si trovi l’inizio e dove la fine. Si può passeggiare, come uno a caso dei tanti personaggi, lungo l’anello che contiene la storia (più o meno circolare), all’infinito.
Il cinema di Lynch è formato da episodi limpidissimi e talvolta spiazzanti come “The elephant man”, “Cuore selvaggio” e “Una storia vera” (il suo film più intimista) e da pellicole che avrebbero fatto la gioia di Sigmund Freud come “Velluto blu”, “Strade perdute” e, per l’appunto, “Mulholland drive”.
Vi è mai capitato di addormentarvi e sognare qualcuno che avete incontrato (anche solo di sfuggita) durante il giorno? Oppure di sognare persone che conoscete bene, ma che nel sogno hanno qualcosa di diverso dalla realtà? Di sognare ricordi che credevate aver rimosso e che poi riemergono come intatti oppure distorti? Di sognare vecchi amori infranti come fossero ancora tangibili? Questo è “Mulholland drive”: un film sulla schizofrenia (Diane assomiglia tanto a Fred Madison di “Strade perdute”), e il sogno è all’incirca un meccanismo schizofrenico, un gioco di scatole cinesi ingannatrici.
Penso sia davvero inutile cercare l’interpretazione intesa come spiegazione; sono state scritte davvero troppe parole al riguardo, lo stesso Lynch ha affermato che il film è nato da un suo sogno, e i sogni, lo sappiamo, si ancorano al nostro inconscio, diverso in ognuno di noi e, a mio modestissimo parere, difficilmente psicoanalizzabile seguendo schemi e formule precise.
Qualcuno dice che la prima parte del film rappresenti l’oniricità, mentre la seconda incarni la dura realtà. Qualcuno dice che è solo la triste storia di un amore non corrisposto. Altri sostengono che forse Diane non si sia mai nemmeno alzata da quel divano e abbia sognato tutto, ma sarebbe come sostenere che Noodles in “C’era una volta in America” non avesse mai lasciato la fumeria d’oppio. E chi siamo noi per pronunciare simili affermazioni?
Io dico che, se così fosse, si cercherebbe di ridurre a schemi razionalisti una pellicola prettamente “surrealista”, e non penso che questo sia possibile (perlomeno io non ne ho le capacità).
L’unica cosa che posso asserire senza dubbi di sorta è che “Mulholland drive” provoca in me, ogni volta che lo rivedo, un elevato piacere estetico. Questo è lo scopo dell’arte, a prescindere da qualsiasi significato più o meno implicito possa contenere.

Davide Battaglia

venerdì 25 maggio 2007

Spider Man 3

Incorporeo come l('uomo)a sabbia

Titolo originale: Spider-man 3
Regia: Sam Raimi
Anno: 2007
Produzione: USA
Durata: 156 minuti
Genere: fantastico/azione
Voto: S.V.

Cosa c'entra il maestro Alfred Hitchcock con il terzo capitolo della saga dell'Uomo Ragno? Apparentemente nulla eppure, la chiave di lettura per il nuovo film di Sam Raimi, sta proprio in una storica affermazione del compianto regista inglese. Hitch sosteneva che "più è riuscito il cattivo e più è riuscito il film"... bene, in Spider-man 3 ce ne sono tre di cattivi (anzi quattro se si conta anche il lato oscuro dello stesso protagonista con il quale Peter Parker si trova a combattere per una buona metà) eppure nessuno riesce ad essere efficace quanto l'Harry Osborne di William Dafoe o l'Octopus di Alfred Molina.
È questo il principale difetto di una pellicola che, nonostante la sensibile durata – quasi due ore e mezza – presenta diverse lacune nella stesura della sceneggiatura.
Il film procede a singhiozzi, partendo in maniera eccessivamente lenta (stiamo pur sempre parlando di un fumettone), riprendendosi nella parte centrale e precipitando – è proprio il caso di dire – in un finale che aveva l’obbligo di “chiudere il cerchio” e togliere la troppa carne messa al fuoco precedentemente.
Usciti dalla sala si ha la sensazione di aver voluto tirare troppo la corda (o la ragnatela) ed essere rimasti a metà corsa senza benzina. Personaggi complessi e importanti nella vita di Peter come Gwen Stacy e Venom finiscono col diventare mere comparse, perni di singole scene che non trovano sufficiente sviluppo narrativo.
Probabilmente non sono nemmeno giustificabili le eccessive critiche perché le pretese di questo film sono ben lontane dal voler raggiungere l’immortalità di pellicole storiche, però Raimi – così come Nolan, Burton o Singer prima di lui – ha dato dimostrazione che il compromesso tra intrattenimento e autorialità non sia un’utopia.
Se qualcuno sostiene che non sia coerente paragonare lo Spidey di Raimi a quello di un McFarlane, o un Miller, o un Romita... – e la cosa è oltremodo condivisibile visto che il linguaggio cinematografico è differente da quello dei fumetti – è però vero che il film in questione assomiglia molto più a un fumettone piuttosto che ad una pellicola cinematografica.
In questo terzo episodio, le scelte autoriali di Raimi, forse forzate da altri soggetti e quindi, ci si domanda fino a che punto autoriali, non convincono appieno. Prima di tutto, l’incertezza che il regista mostra nel rimanere sempre in bilico tra commedia e dramma, esasperando i toni in entrambi i sensi e non riuscendo a trovare il perfetto equilibrio che aveva caratterizzato i due film precedenti. Restano soprattutto in mente, in senso negativo, l’ormai famigerato siparietto in stile Tony Manero che un Tobey Maguire, sopraffatto dal simbionte alieno, deve essere stato costretto con la forza a recitare (una delle cose più imbarazzanti e fuori contesto mai viste al cinema) e, in senso positivo, il cameo di un bravissimo Bruce Campbell nei panni di un cameriere francese pasticcione.
Solitamente con una trilogia si dovrebbe chiudere una saga, ma forse questo terzo capitolo dello stupefacente Spidey, è più un anello di congiunzione tra quello che è stato e quello che ci attenderà in futuro. Una sorta di lungo trailer che fa sperare noi inguaribili fan di poter vedere ancora il nostro amato ragno di quartiere volteggiare tra i grattacieli di New York.

Davide Battaglia

martedì 15 maggio 2007

Il labirinto del fauno

O della perdita della fanciullezza

Titolo originale: El laberinto del fauno
Regia: Guillermo del Toro
Anno: 2006
Produzione: Messico, Spagna, USA
Durata: 112 minuti
Genere: fantasy/drammatico
Voto: 8

Ambientato nella Spagna del 1944 poco dopo la fine della guerra civile spagnola, l'ultimo film di Guillermo del Toro (Blade 2, Hellboy, La spina del diavolo) racconta la storia di Ofélia (Ivana Baquero) che, trasferitasi insieme alla madre Carmen a casa del patrigno, il capitano dell’esercito franchista Vidal (Sergi López), soffre per i suoi modi freddi e autoritari. Troverà così rifugio in un misterioso labirinto che ha scovato vicino a casa, dove Pan, la magica creatura che fa da guardiano al labirinto, le rivela che lei è la principessa smarrita di un regno magico.
Secondo capitolo, dopo “La spina del diavolo” della “trilogia” (anche se ultimamente si tende ad un uso inflazionatistico del termine) fantastico-metaforica sulla Spagna franchista, concepita da Guillermo Del Toro.
La locandina e le etichette conferite dalla stessa casa di produzione (oltre che da una certa critica) farebbero pensare ad un titolo propriamente fantasy ed è per questo che mi sono accinto alla visione con qualche riserva. Riserve condizionate dal fatto che, soprattutto negli ultimi tempi, nutro un po' di allergia verso questo genere visto che, sempre più spesso, si assiste alla messa in scena di fiabe adatte soprattutto ad un pubblico infantile o al massimo adolescenziale che, con un uso spropositato di effetti speciali, risultano in ultima analisi, alquanto sterili sotto altri profili (tutto il rispetto verso la saga di Tolkien, diretta da Peter Jackson, che rimarrà - probabilmente - un caso unico di perfetto compromesso).
Non era il caso del relativamente recente tentativo (apprezzabile, anche se personalmente non completamente riuscito) del "Lady in the water" di Shyamalan e lo è ancora meno questo di Del Toro che, dopo un inizio un po' tentennante e dai ritmi eccessivamente blandi, si rivela ben presto un incubo spaventoso.
Contrariamente a quanto si possa immaginare, però, gli incubi non sono portati dai mostri che popolano gli abissi della terra frequentati dalla piccola Ofelia, bensì dagli uomini che sul piano della realtà provocarono il terrore con il loro regime dittatoriale nella Spagna franchista. Ed è qui che il film si rivela esattamente per quello che è: un dramma incentrato sulla guerra civile e sugli orrori provocati dal fascismo. Lo stesso regista non fa segreto dei suoi pensieri: “... il fascismo è innanzitutto una forma di perversione dell’innocenza, e quindi dell’infanzia. Per me il fascismo rappresenta in un certo senso la morte dell’anima, perché obbliga a compiere scelte dolorose, laceranti che lasciano un segno indelebile e profondissimo in coloro che lo hanno vissuto.” Ecco che il punto di vista di una bambina diventa l’ideale rappresentazione di una sorta di dicotomia, da una parte diretta (con una rappresentazione storica), dall'altra sotto forma di metafora (con la perdita dell'innocenza). Due forme narrative che alla fine si incastrano in modo perfetto.
La pellicola è totalmente avulsa da ogni consolante e adolescenziale considerazione, ponendo continuamente la piccola protagonista al centro di situazioni tragiche, che la costringono a scelte che non sono tipiche della sua età, e in una precoce perdita della fanciullezza.
Il risultato è un pregevole esempio di come si possa fare cinema di "genere" in modo "serio", drammatico e, concedetemelo, adulto.
Il labirinto è il luogo (mitico per eccellenza) dove la vicenda si risolve, richiamando in modo elegante anche lo Shining di Kubrick, sia dal punto di vista della tematica oltre che da quella figurativa, lasciando lo spettatore in sospeso e moltiplicando le possibili letture.
Un raggio di luce che però non riesce a cancellare il prorompente buio della tragedia, nemmeno con la seducente ambiguità della scena finale.

Recensione pubblicata anche su www.scheletri.com (dicembre 2006)

Davide Battaglia

giovedì 3 maggio 2007

I figli degli uomini

Un antieroe in infradito

Titolo originale: Children of men
Regia: Alfonso Cuaròn
Anno: 2006
Produzione: USA
Durata: 98 min.
Genere: drammatico/fantascienza
Voto: 7,5

Quante volte guardando un film si è portati a riflettere su come la fantasia degli autori tragga spunto dalla realtà, magari enfatizzandola (anche se abbiamo tutti imparato come spesso la realtà corra più velocemente e sia tragicamente più apocalittica di qualsiasi finzione) ed estremizzando le conseguenze delle più disparate azioni umane? Visionando “I figli degli uomini” si prova esattamente questa sensazione, ovvero di trovarsi di fronte a qualcosa di molto reale e non a una rappresentazione fantascientifica.
Slavoj Zizek, autorevole filosofo e critico culturale, parlando dell’opera di Alfonso Cuaròn, cita perfino Hegel e il suo “estetica” dove si sostiene che un buon ritratto assomiglia di più alla persona che la persona stessa o, in altri termini, un buon ritratto è meglio rappresentativo della persona che ritrae.
Questo è proprio quello che fa il regista messicano con il suo film: non punta verso una realtà alternativa, ma rende semplicemente la realtà più di quello che è già. In questo senso è stata decisiva la scelta di girare la pellicola conferendole un taglio documentaristico, facendo ampio uso di lunghi piano-sequenza e soggettive che seguono i protagonisti della vicenda come farebbe un reporter di guerra. Le stesse macchie di “sangue” che schizzano sulla mdp (originariamente furono un errore, ma alla fine Cuaròn e il suo direttore della fotografia Emmanuel Lubezki decisero – fortunatamente – di mantenerle) non fanno altro che accentuare questo senso di iper-realismo.
Il futuro brutto, sporco e cattivo che l’umanità si sta costruendo con le proprie mani è già davanti ai nostri occhi: migrazioni ambientali o socio economiche sempre più fuori controllo, globalizzazione senza freni, tensioni razziali e guerre civili, sono, in realtà, già il nostro presente. E fa poca differenza se lo scenario di tutto ciò non è un paese della ex Yogoslavia o uno stato del Medio Oriente, ma una Gran Bretagna (scelta che assume una valenza in più a causa della sua caratteristica di nazione tradizionalista per eccelenza) rimasta unico baluardo di un mondo che ha già varcato la soglia del collasso. Un baluardo che però assomiglia a un regime nazista, che, nella speranza di preservare le proprie barriere e assicurare i servizi minimi per i propri cittadini, ha cancellato il concetto di dignità umana di tutti gli altri. Le frontiere sono state chiuse, i profughi vengono espulsi (se non uccisi) dopo essere stati deportati in città trasformate in lager. Non esiste più una morale perché non esiste più un futuro e la tematica fantastica del film – la totale infertilità del genere umano – è solo la metafora di uno dei possibili olocausti.
Cuaròn (ma soprattutto la scrittrice P.D. James, autrice del libro da cui il film è tratto) ci parla anche della pericolosità delle utopie e dei soggetti che in esse credono ciecamente: bisogna temere le persone che amano più gli ideali che i propri simili, perché il passato ci ha insegnato che anche ideali buoni possono portare all’odio per chiunque abbia la facoltà di interferire con la realizzazione del sistema sognato.
Anche preservare l’arte diventa un’utopia e il David di Michelangelo salvato dalla fondazione per l’arte (insediata all’interno della celebre centrale per l’energia elettrica di Battersea) appare come un triste e decontestualizzato pezzo di marmo circondato da un ambiente totalmente asettico.
E il grande maiale con le ali che veleggia tra le torri della centrale (esplicito omaggio ai Pink Floyd e alla cover dell’album Animals, a sua volta riferimento all’allegorico romanzo “la fattoria degli animali” di Orwell) restituisce un’immagine ancora più terribile di questo presente. La musica riveste, infatti, un ruolo importantissimo: incentrata soprattutto su grandi brani degli anni ’60 e ’70 è, al contempo, sinonimo di nostalgia e testimonianza di quanto il mondo non si sia evoluto più da quei tempi fino al 2027, dove c’è poca tecnolgia rispetto al nostro presente e quella poca che c’è, è già malridotta.
Un film evocativo, pregno di significati e, probabilmente, utopistico allo stesso modo delle tematiche che mette in discussione. Tanti punti di riflessione non coadiuvati da una sceneggiatura non sempre all’altezza che rimane l’unico (ma non marginale) neo della pellicola.
Nonostante questo “I figli degli uomini” va visto e rivisto, sia per le sue apprezzabili soluzioni tecniche, sia per gli scottanti e attualissimi argomenti trattati. Non resta che seguire gli incerti passi dell’antieroe Theo-Clive Owen che, calzando comodi quanto inopportuni infradito, verrà travolto dagli eventi e sarà costretto, suo malgrado, a combattere la sua depressione e il suo nichilismo per restituire un futuro all’umanità.

martedì 24 aprile 2007

X_Science. Cinema tra Scienza e Fantascienza

Genova, 2-3-4 Maggio 2007, Seconda edizione
Ingresso libero

Scienza e Fantascienza al cinema, uno strano connubio per alcuni ma non per la Facoltà di Scienze Matematiche, Fisiche e Naturali dell’Università di Genova e il Genova Film Festival (Associazione Culturale Daunbailò), che uniscono le forze per realizzare la seconda edizione di X_Science: Cinema tra Scienza e Fantascienza. Con il contributo di Regione Liguria, Provincia di Genova, Comune di Genova, Festival della Scienza e con la preziosa collaborazione di Fandango, Warner Bros, Lab80 e Archivio del Genova Film Festival.

Tra il 2 e il 4 Maggio Genova, dopo il grande successo della scorsa edizione di X_Science, si propone così nuovamente alla ribalta del mondo della divulgazione scientifica con una manifestazione rivolta ad un pubblico sempre più attento, curioso e desideroso di comprendere.
La seconda edizione di X_Science: Cinema tra Scienza e Fantascienza, si terrà a Genova presso il Cinema Instabile e si arricchisce di matinée (dalle 10 alle 12) per le scuole presso il Museo di Scienze Naturali di Genova.
L’ ingresso sarà libero fino ad esaurimento posti.

L’evento è diviso in cinque “rami”:
X_Premiere: le anteprime tra lungometraggi e TV
X_Shorts: concorso nazionale di cortometraggi tra scienza e fantascienza, con un fuori programma sulla (Fanta)statistica
X_Feature: i lungometraggi
Matinée: proiezioni per le scuole al Museo di Scienze Naturali
La Notte della Fantascienza: capolavori del cinema di fantascienza americano degli Anni Cinquanta

Il programma prevede, nella serata di mercoledì 2 maggio, la proiezione in anteprima di Dark Resurrection atteso film diretto dagli imperiesi Angelo Licata e Davide Bigazzi, impegnati da alcuni anni nella realizzazione di questa opera ispirata all’universo di George Lucas. Gli autori presenteranno il film; la proiezione sarà ad inviti fino ad esaurimento posti (per info segreteria@genovafilmfestival.it).

Altra anteprima, venerdì 4 maggio, prima della Notte della Fantascienza, per Invaxön, alieni dallo spazio, i nuovissimi telefilm realizzati da Massimo Morini, Enzo Pirrone e gli infaticabili componenti dei Buio Pesto per Jimmy, canale satellitare di Sky dedicato alla fantascienza, dopo il successo ottenuto dal lungometraggio realizzato nel 2004. Il pubblico di X_Science potrà vedere in anteprima 4 puntate da 25 minuti del divertente telefilm che, conta la partecipazione di importanti guest star come Dario Vergassola ed Elio e le storie tese. Gli autori presenteranno i telefilm.

X_Shorts, la competizione riservata ai cortometraggi, vede in competizione otto opere di altrettanti autori provenienti da tutta Italia che saranno proiettate nella serata di giovedì 3 maggio e premiate dal pubblico nella serata successiva.

X_Feature proporrà due lungometraggi usciti quest’anno nelle sale italiane passati ingiustamente quasi inosservati: in collaborazione con Warner Bros verrà presentato A Scanner Darkly - Un oscuro scrutare (mercoledì 2 maggio, ore 22:30) di Richard Linklater e il documentario capolavoro di Werner Herzog, Grizzly man (giovedì 3 maggio, ore 22:30), presentato in collaborazione con Fandango.

La Notte della FantaScienza, che avrà luogo a partire dalle ore 24:00 di Venerdì 4, sarà una vera e propria notte bianca dedicata, quest’anno, ai capolavori del cinema di Fantascienza Americana degli Anni Cinquanta.
Ultimatum alla Terra (The Day the Earth Stood Still, Usa, 1951) di Robert Wise
L’esperimento del Dottor K (The Fly, Usa, 1958) di Kurt Neumann
Radiazioni BX, distruzione uomo (The Incredible Shrinking Man, 1957) di Jack Arnold

Le presentazioni dei film saranno curate dai componenti del Comitato Organizzatore di X_Science che sono: per la Facoltà di Scienze M.F.N. - Maurizio Martelli (Preside), Marilena Carnasciali, Teo Mora e Paolo Piccardo; per il Genova Film Festival – Cristiano Palozzi e Antonella Sica

Info: segreteria@genovafilmfestival.it
Tel. 010.5573958
www.genovafilmfestival.it

lunedì 23 aprile 2007

Sunshine

Niente di nuovo all'orizzonte... nemmeno il Sole

Titolo originale: Sunshine
Regia: Danny Boyle
Anno: 2007
Produzione: Gran Bretagna
Durata: 108 min.
Genere: fantascienza
Voto: 6

Anno 2057. Non se ne conosce il motivo (dati scientifici alla mano dovrebbe funzionare ancora una manciata di miliardi di anni), ma il Sole si sta spegnendo. L’ipotesi anche se inverosimile (ma a noi appassionati di fantascienza questo importa relativamente) è comunque affascinante e pone (o potrebbe porre) le basi per una serie infinita di domande: domande che inevitabilmente non possono trovare risposte certe.
L’unica e ultima possibilità di salvezza per la Terra risiede nel tentativo di riattivare le funzioni della nostra indispensabile stella attraverso lo sganciamento di una bomba atomica potentissima (realizzata con tutte le ultime risorse nucleari disponibili sulla Terra) diretta nel suo nucleo.
Ecco che la missione Icarus II, composta da un equipaggio di sette giovani astronauti scienziati, naviga alla volta dell’astro morente con il peso della responsabilità di non poter fallire.
Sunshine riunisce nuovamente e a distanza di cinque anni alcuni degli elementi che decreterano il successo di 28 giorni dopo (e questo è un bene): il produttore Andrew Macdonald, l’ormai affermato attore Cillian Murphy e lo sceneggiatore Alex Garland (che oltre ad aver realizzato lo script per 28 giorni dopo è stato, ahinoi, anche l’autore di The beach… e questo non è un bene).
È chiaro che al regista piace un certo tipo di fantascienza (diciamo quella più elegante di 2001, per esempio) e la verosomiglianza scientifica ed è palese che ci sia stato un grande lavoro imperniato su consulenze qualificate e una grande preparazione tecnica che ha coinvolto tutto il cast, dal responsabile della fotografia (Alwin Kuchler) a quello delle scenografie. Le sue dichiarazioni, inoltre, farebbero pensare di trovarsi di fronte a qualcosa di questo genere: “la questione di cosa succederebbe alle nostre menti quando incontrano il creatore dell’universo, che per alcune persone è un concetto spirituale o religioso, per altre è un’idea puramente scientifica. Siamo tutti fatti di particelle di stelle esplose, quindi come sarebbe avvicinarsi così tanto al sole, la stella dalla quale deriva la vita dell’intero sistema solare?
Se l’intenzione di Danny Boyle era quella di realizzare un’inedita odissea spaziale, capace di restituire nuova linfa alla fantascienza d’autore, condita da complesse sfumature psicologiche in bilico tra filosofia e teologia, dobbiamo purtroppo dichiarare l’esperimento fallito.
Se, altrimenti, spogliando Sunshine di ogni ambizione eccessivamente pretenziosa, lo scopo voleva essere quello di produrre una classica pellicola di Serie B che, pescando a piene mani da film come 2001, odissea nello spazio, Solaris e Alien, tende invece ad assomigliare molto di più a un Event Horizon, allora: Icarus II, missione compiuta!
Va comunque sottolineato il sempre originale stile “giovanilista” del regista inglese, un montaggio variabile e perfettamente al servizio dello svolgimento della trama, e la sua riconosciuta abilità nell’uso delle musiche, composte interamente dagli Underworld (quelli del tormentone “Born Slippy” dalla soundtrack di Trainspotting) che con un mix di elettronica e post-rock minimalista conferiscono alla pellicola quel pizzico di pathos in più.
Se vi piacciono le storie di astronavi sperdute nello Spazio che vanno incontro a una serie di spiacevoli imprevisti, allora Sunshine è film che fa per voi, in caso contrario cercate altrove il vostro Sole.

Davide Battaglia

sabato 21 aprile 2007

Roger Dean

Quando il fantastico incontra l'arte e la musica


Il nome Roger Dean dirà forse poco agli appassionati di arte, ma dovrebbe dire molto (almeno in teoria) agli appassionati di un certo tipo di rock.
La musica complessa, intellettuale, ridondante e spesso epica che dettava le mode e le regole agli albori degli anni ’70 (oggi si chiama progressive) si accompagnava perfettamente all’arte metaforica e fantastica di artisti come Paul Whitehead (illustratore delle copertine dei Genesis), Hypnosis (studio grafico autore delle cover dei Pink Floyd) e, soprattutto, di Roger Dean che ha legato il suo nome (e il suo successo) in particolare a quello degli Yes.
Nell’arte di Dean, così come nella musica rock progressive, si coglie facilmente l’incontro tra passato remoto e futuro e la convivenza (spesso anche antitesi) tra tradizione e avanguardia.
Molti gruppi, infatti, conciliavano suoni e strumenti di origine atavica a forme di sperimentazione estreme che trovavano nell’elettronica una fonte quasi inesauribile di scoperte. Non a caso il rock-prog pescava a piene mani sia dalla musica classica che dal jazz più moderno.
I colori, i personaggi e le forme immaginarie che popolavano le copertine di quei dischi erano quindi la rappresentazione di universi fantastici proiettati dalla musica. Una musica che il tempo ha dimostrato essere utopistica e che, come nel fantasy e nella fantascienza, raccontava di mondi definibili come “terre del sogno”.
Roger Dean incarna perfettamente questo sogno: le sue immagini si distinguono per una grande armonia, un senso di pace e serenità e un carattere prettamente fiabesco.
Il suo stile, fatto di immagini crepuscolari e colori tenui incarna una ricerca di contenuti che si ripropone in ogni sua opera conferendogli un vero e proprio marchio di fabbrica (annotazione che gli è valsa anche qualche critica) e che spesso non ha neppure un rapporto profondo e radicato con il contenuto del disco anche se ne riesce sempre a catturarne l’essenza.
Dean è inglese, classe 1944, e figlio di un militare; il lavoro del padre lo ha costretto a vivere per gran parte della sua infanzia e della sua adolescenza in giro per il mondo, portandolo a conoscere ambienti variegati e paesaggi esotici che hanno, probabilmente, condizionato la sua immaginazione e la sua visione dell’arte.
Tornato in patria, si diplomò come designer alla Canterbury School of Art, mentre nel 1968 si laureò presso il Royal College of Art di Londra.
Proprio in quegli anni iniziò a lavorare nel settore discografico realizzando la copertina dell’album di un gruppo chiamato Gun e, poco dopo, quella per gli africani Osibisa. Fu proprio quest’ultimo lavoro ad attrarre l’attenzione dei già popolari Yes che lo vollero per la rappresentazione grafica di quello che sarebbe diventato il loro primo capolavoro: Fragile.
Siamo nel 1972 e quest’opera, che a tutt’oggi rimane una delle più belle e complesse della sua produzione, mostra una sorta di globo terrestre ricco di acqua e vegetazione (due elementi ricorrenti nelle sue realizzazioni tanto da farlo affiancare ai nascenti movimenti new age) sorvolato da un oggetto volante antico e, al contempo, post-moderno che ricorda molto da vicino un’invenzione di Leonardo Da Vinci; forse un accenno alla sperimentazione e all’invenzione che gli stessi Yes stavano tentando con la loro musica.
Da lì in avanti Dean diventerà quasi un membro aggiunto del gruppo curando la quasi totalità delle copertine degli Yes, inventando il bellissimo e celebre logo e coreografando moltissimi loro concerti. Il mondo della musica progressive deve però molto all’artista inglese che tra le sue collaborazione ha annoverato, nel tempo, anche quella di molti altri gruppi di rilievo tra cui Uriah Heep, Gentle Giant (come non ricordare la spettacolare piovra dell’album “Octopus”) e Asia.
Personalmente, uno dei lavori che maggiormente apprezzo è la copertina interna dell’album manifesto (degli Yes, ma anche del rock anni ’70, oltre che di quel periodo storico) “Close to the edge”, che si contrappone alla disarmante semplicità di quella esterna, quasi a voler sottolineare che l’aspetto più importante di quel disco risiede al suo interno: la musica, appunto. Close to the edge è un paesaggio paradossale dove l’acqua di una cascata precipita in tutte le direzioni e dove le rocce “galleggiano” sospese per aria.
A testimonianza della completezza e della preparazione di questo artista bisogna ricordare come si cimenti in tecniche diverse contemplando l’uso dell’acquarello, della china, del carboncino, del collage e come si sia distinto anche nella realizzazione di progetti di architettura di interni ed esterni dove si riscontra la stessa armonia e anarchia di forme dei suoi dipinti.
Per ammirare i suoi lavori si consiglia di recuperare i volumi Views, del 1975, e Magnetic Storm, del 1984, oppure fare una visita al suo sito internet www.rogerdean.com
Buon viaggio a tutti.

Davide Battaglia

lunedì 16 aprile 2007

Avvisi ai naviganti

Tra fantascienza e noir

Stefano Roffo, Claudio Asciuti
De Ferrari Editore, Genova, 2006
208 pagg.
10 €

“Il futuro è cupo – esordì Loke dopo i convenevoli d’uso, la seconda sera che ci incontrammo – un mio vecchio conoscente, il signor Horbi, uomo che vede al di là del proprio naso, peraltro considerevole, sostiene che gli aerei della Luftwaffe faranno piovere molte altre bombe dai cieli dell’Est; in quegli stessi cieli Horbi li ha ‘visti’ bombardare anche a fine millennio… Ma questa volta senza le svastiche sulle ali…”

Uscito recentemente per la De Ferrari Editore di Genova il volume “Avvisi ai naviganti” raccoglie due romanzi brevi di due autori liguri: uno, Stefano Roffo (spezzino, classe 1955), un quasi esordiente nel campo del fantastico (anche se già autore di saggi su arte e turismo e, in particolare, del bel volume edito dalla Newton e Compton, “Guida curiosa ai misteri, ai segreti, alle leggende e alle curiosità di Genova”), l’altro, Claudio Asciuti (genovese, classe 1956), nome molto popolare per quanti bazzichino l’ambiente sf e fantasy, vincitore, tra l’altro, nel 1999 dell’ambito Premio Urania, con il romanzo “La notte dei Pitagorici”.
Il racconto di Asciuti, intitolato “Appuntamento ai Doganieri” è una sorta di ricerca personale del senso della vita in pieno stile Philip K. Dick (viaggi lisergici compresi). Grazie all’aiuto di una donna, figura "mistica" ricorrente, l’autore dimostra come l’allucinazione possa diventare la vera realtà, un po’ come nella cultura degli aborigeni australiani per cui il sogno è l’ombra della verità ultima delle cose.
Soffermandoci in particolare sull’opera di Roffo, intitolata “Unterwelt” (parola tedesca inventata dall’autore che corrisponderebbe alla traduzione dall’inglese di Underworld, sottomondo), si rimane colpiti dalla perfetta ambientazione storica che ritrae una Praga sotto assedio nazista, ancora più cupa e magica di quanto non fosse – e non sia tuttora – nella realtà, dove agiscono misteriosi personaggi, dal passato ancora più oscuro, all’ombra della celebre macchina Enigma, inventata dall’ingegnere tedesco Arthur Scherbius. Gli ingredienti, i riferimenti e gli ipertesti nascosti che condiscono questa novella sono davvero tanti e può sembrare riduttivo cercare di etichettarla in qualche modo, ma se il sottotitolo del volume indica il termine “cyber-noir” per delimitare i confini dell’azione, è forse l’introduzione di Domenico Gallo a centrarla perfettamente, individuando l’etichetta steampunk, ovvero il “punk della macchina a vapore”, corrente letteraria che si sviluppò contemporaneamente al cyberpunk e che riporta le tematiche, le angoscie e la commistione di tecnologia e cultura pop, nel passato anziché nel presente o nell’immediato futuro.
Per questo motivo Unterwelt trova un suo illustre punto di riferimento ne “La macchina della realtà” di William Gibson e Bruce Sterling, dove Rivoluzione Industriale e Rivoluzione Informatica si fondono per dar vita ad una fantascienza che tenta di riscrivere il passato dando un volto nuovo al futuro. Probabilmente, però, il testo che più di ogni altro sembra aver influenzato Stefano Roffo è “Il Golem”, pubblicato da Gustav Meyrink nel 1915. Questo essere, il cui nome ebraico indica una massa informe, è il vero protagonista di Unterwelt e rappresenta l’aspetto più fantascientifico dell’opera, riconducibile all’idea di donare la vita a qualcosa d’informe, o di creare l’organico dall’inorganico (tema ricorrente nella fantascienza).
Unterwelt però indica soprattutto un mondo sotterraneo che si sviluppa parallelamente a quello conosciuto e che, con un abile gioco di scatole cinesi, restitusce una sensazione di smarrimento e inquitudine, tanto ai protagonisti della vicenda, quanto ai lettori, portandoli a domandarsi se non ci sia davvero qualcun altro al di sopra di essi intento a manovrare degli invisibili fili.
Non resta che seguire l’ex comandante Edward Morris (che, guarda caso, con il suo scetticismo riguardo le convinzioni nazionalistiche, ideologiche e religiose ricorda molto da vicino il “collega” Corto Maltese) tra i vicoli, le scalinate, le fognature di Praga, alla ricerca di una verità che, una volta svelata, potrebbe essere più insopportabile di qualsiasi finzione.

Per chi fosse interessato all’acquisto: chiedere nelle migliori librerie di Genova, oppure consultare il sito www.deferrari.it