sabato 3 maggio 2008

Il ritorno di Martina


Fuori piove. Come allora, come quel pomeriggio di dieci anni fa. È una strana sensazione trovarsi qua da soli. A qualche migliaio di chilometri da quella che sarebbe casa mia. Da quella che sarebbe la mia città. Invece non ho più una casa, nessuna città mi annovera tra i suoi abitanti, nessuna famiglia attende il mio rientro per cena. Sono un’anima errante, un mendicante senza nome, uno dal quale è meglio girare alla larga. Non fosse altro per il lezzo che emano. Già… odoro di morte.

Questa è Brest, nord della Francia. Qui tutto è grigio. I palazzi, ricostruiti a tempo di record dopo i bombardamenti, così come il cielo. Anche le pareti della stanza sono grigie. Quasi, non si distingue differenza tra di esse e il panorama oltre la finestra. Una stanza densa di ricordi e malinconia. Malinconia per quello che poteva essere e non è stato.
E poi un numero. Tra cifre che mi hanno ossessionato per tutto questo tempo. Stanza 216, Hotel Ètoile, trecento metri dalla stazione.
È proprio vero che l’assassino torna sempre sul luogo del delitto. A volte capita subito. Magari mentre la polizia è intenta a fare i rilevamenti. A volte capita a distanza di anni per festeggiare una ricorrenza. Per esempio quella di essersi liberati di un marito scomodo e avere iniziato una nuova vita. Un motivo non da poco per far festa.


Certo, c’è qualcosa di macabro e morboso a voler scopare col tuo nuovo compagno mentre bevi champagne proprio dove mi hai ammazzato, ma sapevo che prima o poi saresti tornata. Ho sempre sospettato che fossi una puttana sadica, ma, mea culpa, ti amavo. Ora, cara Martina, è arrivato per me il momento dell’eterno riposo, è arrivato il momento di vendicare la mia morte. Ho atteso dieci anni, ma per uno spirito condannato al limbo sono un periodo appena sufficiente a prendere coscienza del proprio stato di trapassato.
Mi basta penetrare il tuo petto con la punta delle dita e cercare il tuo cuore. Affondare, stringere forte, bloccare il tuo sangue, fermare il tuo respiro. Osservare il tuo corpo nudo irrigidirsi mentre sei sopra di lui. Non è un orgasmo, bambina. Stai morendo.

Non ho neppure il tempo di incrociare la tua anima, se mai ne hai posseduta una, che qualcosa mi trascina fuori da qui. Inizio la mia discesa all’inferno, o almeno suppongo. Non riesco nemmeno a vedere la tua espressione corrugata e stupita. Probabilmente ci sei rimasta male. Non era una cosa che avevi programmato. Morire. Qui e ora. Addio Martina, questa volta per sempre.
Continua a piovere, ma va bene così. Ho sempre desiderato andarmene da qui con un bel temporale.

Componimento di Davide Battaglia (gennaio 2006)
Concorso "SANguinario VALENTINO" 2a edizione www.latelanera.com

sabato 8 marzo 2008

Pink Floyd, live at Pompeii

Echi di un passato sepolto

È un timore reverenziale quello che scaturisce dalla visione del profilo del Vesuvio, determinato dalla consapevolezza che il “vulcano degli dei” non ancora domato, è chiuso da un tappo di rocce, ceneri e polveri che si sono accumulate dal 1944, data della sua ultima eruzione, a oggi.
Il Vesuvio è prima di ogni altra cosa un simbolo che rappresenta l’anima di questo luogo intriso di misteri iniziatici legati alla morte e alla rinascita, e che parla attraverso le genti e gli avvenimenti.
Attorno ad esso nacquero e si diffusero i culti di Dioniso e di Cibale, la dea col tamburo, prima, e delle Madonne, dopo. Una terra popolata da miti e leggende, densa di storia e cultura, che trova la sua testimonianza più importante nei resti della città di Pompei. Qui il tempo si è fermato quasi 2000 anni fa, nell’istante in cui il Vesuvio ha scatenato la sua più violenta eruzione, immobilizzando ogni cosa, animata e non, si trovasse sulla traiettoria della sua indomabile furia.
Tra le rovine di palazzi e ville, strette strade lastricate di basalto, affreschi e mosaici, e osservando i calchi dei corpi degli sfortunati abitanti, si respira un’atmosfera surreale e quasi ultraterrena.
La particolarità e il fascino mistico di questo sito hanno senza dubbio contribuito al successo di una delle operazioni musicali (e cinematografiche) più riuscite nella storia della musica leggera. Agli albori degli anni Settanta, quattro ragazzi londinesi rispondenti al nome di Pink Floyd ricevettero l'offerta di girare un film-concerto, pratica abbastanza consueta, in quel periodo, per un gruppo di successo mondiale. Ma la musica dei Floyd era quanto di più anticonvenzionale esistesse all’epoca nel panorama del rock e, in accordo con il regista Adrian Maben, fecero una scelta all’altezza della loro fama sia per quanto concerneva la location, sia per quello che riguardava l’esecuzione.
Il film, Pink Floyd, Live at Pompeii, registrato nell’anfiteatro della città-museo resta ancora oggi un passaggio memorabile (e unico) della storia del rock. Realizzato nell'era dei concerti megalitici con migliaia di spettatori, ha invece la peculiarità di essere eseguito in uno spazio vuoto, senza pubblico, se non quello delle silenziose opere architettoniche pompeiane, per poter raggiungere la massima purezza di suono consentita.
La musica sublime dei Pink Floyd, l’avveniristica regia di Maben e la magica bellezza del luogo rendono questo concerto un mosaico di suoni e immagini evocative.
Non si può rimanere impassibili di fronte a una simile potenza visionaria. Le parole si perdono nel vento come gli incandescenti vapori che fuoriescono dalla terra, i suoni, ora dolci, ora taglienti, avvolgono come lava e fendono come lapilli, le pelli dei tamburi scosse vorticosamente richiamano la voce del vulcano, mentre la cenere lentamente ricade sulla superficie delle cose accompagnando i titoli di coda.
La scaletta dei brani: Echoes part I, Careful with That Axe Eugene, A Saucerful of Secrets, Us and Them, One of These Days (I'm Going to Cut You), Set the Controls for the Heart of the Sun, Brain Damage, Mademoiselle Nobbs, Echoes part II.

Davide Battaglia

venerdì 11 gennaio 2008

Milano calibro 9

Una città al sapore di piombo

Titolo originale: Milano calibro 9
Regia: Fernando di Leo
Anno: 1972
Produzione: Italia
Sceneggiatura: Fernando di Leo, Augusto Finocchi, Ingo Hermess
Durata: 97 min. (colore)
Genere: noir, thriller
Voto: 8,5

Piazza del Duomo, i navigli, parco Sempione, stazione centrale. Nell'immaginario comune la metropoli lombarda non è, necessariamente, un luogo bucolico e rasserenante, anzi, spesso è sinonimo di frenesia, caos, traffico e polveri sottili nell'aria grigiastra della pianura. Ma chi è che, pensando a Milano, e allo stereotipo (in gran parte retaggio degli anni Ottanta) della "città da bere", non si lascia andare all'immagine di lunghi aperitivi, di grandi negozi di moda, di animata vita sociale e, perché no, di domeniche (quando le partite si giocavano giusto la domenica) barricate all'interno del "tempio" di San Siro?
Qualche anno fa, in particolare negli oscuri Settanta, però esisteva una Milano profondamente diversa. Una Milano che poteva rappresentare al meglio la stragrande maggioranza delle più importanti città italiane (non a caso condivide con Torino, Genova, Roma e Napoli, i soggetti cinematografici a cui faceva da sfondo) che in quegli anni erano vittima di uno stato di terrore generalizzato e che trova riscontro nella triste, ma azzeccatissima definizione "di piombo".
Paranoia, claustrofobia e terrore erano il pane quotidiano di Stato, forze dell'ordine, mass media, gente perbene (e meno perbene) ed era naturale che anche il cinema e la letteratura se ne cibassero.
Dopo il boom economico l'Italia stava attraversando una fase di modernizzazione che ha portato con sé una serie di attriti e traumi che sono stati immortalati e ben rappresentati soprattutto da un autore letterario che ha avuto il merito di sdoganare un genere, il noir, che fino a quel momento era stata una prerogativa di scrittori di lingua anglosassone. L'autore risponde al nome di Giorgio Scerbanenco e il suo stile crudo e diretto, così lontano dalla tradizione letteraria nostrana, unito al fatto di aver superato la formalità del giallo classico (che necessita di un mistero da svelare) portandola alla più concreta, morbosa e forse per questo paurosa, dimensione di fatto di cronaca nera, è alla base di tutto un movimento cinematografico che imperò in quegli anni e che oggi viene definito (un po' semplicisticamente e, in alcuni casi, erroneamente) poliziottesco.
È da qui che registi come Fernando di Leo hanno pescato a piene mani per dar vita a una delle stagioni più intense e prolifiche del cinema nostrano, che contemplava, oltre ai già citati polizieschi e noir, anche una vasta produzione di pellicole di "genere" (dalla fantascienza al western, dall'erotico all'horror) che oggi sono quasi completamente scomparse dalle nostre sale.
Milano Calibro 9, probabilmente il migliore film del regista pugliese, pur presentando lo stesso titolo del libro di Scerbanenco, è in realtà una commistione di elementi presenti in diversi racconti pubblicati dallo scrittore di origine ucraina.
È considerato universalmente come la vetta del cinema italiano nel genere thriller e noir e vanta un numero consistente di estimatori anche all’estero (tra cui il regista pulp per eccellenza Quentin Tarantino). Si differenzia molto dai film polizieschi del periodo perché più che occuparsi della dicotomia guardia-ladro, preoccupandosi della risposta dello Stato all’imperversare della malavita, è un’analisi interna al mondo della malavita stessa, di come possa essere concepita in modi totalmente differenti e di come non esistano ruoli facilmente delineabili.
Milano ha un ruolo fondamentale perché alla base vi è anche un’analisi sociologica di quel periodo determinata dalla presenza sempre più massiccia di lavoratori (e qualche volta delinquenti) che provenivano dal Sud Italia, colpevoli in qualche modo di aver esportato il “prodotto” mafia anche al di fuori dei confini regionali. Le lotte di classe dei lavoratori, le contraddizioni interne alla polizia riformata nel 1970, i siparietti tra funzionari filo-comunisti e tra quelli filo-fascisti, condiscono una vicenda tremendamente reale e – parole dello stesso regista – morale. Morale nel senso che in un contesto come quello narrato dalla pellicola, non esistono certezze per lo spettatore: i valori possono cambiare in qualsiasi momento, i buoni non sono esattamente quello che sembrano, così come non lo sono i cattivi. Questo perché, fondamentalmente, non esistono ne gli uni ne gli altri. Esistono solo gli uomini con le loro debolezze e i loro difetti genetici.
Un cast di attori formidabili (su tutti Gastone Moschin e Mario Adorf), una dark lady (Barbara Bouchet) bellissima e fatale come il genere impone una storia tesa e dal ritmo serrato, una città che si affranca dal mero ruolo di sfondo diventando vera e propria protagonista, una splendida colonna sonora (realizzata dagli Osanna diretti da Luis Bacalov) a metà strada tra il rock-progressive e il luonge e, ovviamente, il tocco di un regista abile come il compianto di Leo, fanno di quest’opera un gioiello imprescindibile per qualsiasi amante di cinema.