mercoledì 27 giugno 2007

Memento

Senza passato nemmeno il futuro ha senso

Titolo originale: Memento
Regia: Christopher Nolan
Sceneggiatura: Jonathan Nolan
Anno: 2000
Produzione: Usa
Durata: 113 minuti
Genere: thriller
Voto: 9

Leonard Shelby (Guy Pearce), ha una rara malattia che gli impedisce di memorizzare nuovi ricordi per più di un quarto d'ora. Questo sembra essere dovuto a un incidente avuto durante un’aggressione nella quale sua moglie è stata stuprata e uccisa. Infatti Leonard ricorda tutto solo fino a quel terribile giorno. Nella sua vita distrutta, l’unico scopo rimasto è quello di rintracciare e punire quell’assassino. Foto Polaroid, appunti, tatuaggi, sono i mezzi attraverso cui tenta di costruire una griglia di ricordi, resistente all'ambiguità dell'indagine e alla volatilità della malattia, che gli consenta, forse, di arrivare a una qualche verità. Lo aiutano un uomo che dice di essere un vecchio amico (Joe Pantoliano) e una ragazza che afferma di aver sofferto come lui (Carrie-Anne Moss).
Christopher Nolan, per poter accedere ai faraonici budget di “Insomnia” e, soprattutto, “Batman Begins”, ha convinto produttori e star hollywoodiane del suo talento con questo (nemmeno troppo piccolo) gioiello. Sceneggiato dal fratello del regista, Jonathan, e basato su un suo racconto originale, “Memento” trova la sua maggiore forza proprio in uno script originalissimo e complesso, grazie a una costruzione “progressiva” ricca di flashback e flashforward, di alternanza di bianco e nero e colore, estremizzando il concetto che Tarantino ha rappresentato in “Pulp Fiction” (onestamente già collaudato nel 1956 da Kubrick in “Rapina a mano armata”), di scombinare ad arte la cronologia dei fatti in funzione della trama.
Raccontare la storia “al contrario” non è una scelta sensazionalista o votata all’autocompiacimento: è l’unico modo possibile per immedesimare lo spettatore nel profondo senso di spaesamento e lacerazione interiore di cui Leonard è vittima, del suo quasi patetico tentativo di opporsi con metodo e costanza a un disturbo che renderebbe impossibile la vita a chiunque.
Oltre a essere un ottimo thriller che ricorda le migliori atmosfere di un noir d’altri tempi, questo film è soprattutto una riflessione sulla fragilità umana, sulle ataviche domande che ci poniamo tutti. A queste domande solo il passato può rispondere; senza di esso perde significato anche il presente e il futuro non esiste nemmeno.
Forse è per questo che, spesso, si mente a se stessi, costruendo ricordi e azioni fittizie che ovattino il presente e diano spinta al futuro. Il dramma di Leonard è lo stesso di chi, senza bisogno di essere affetto da una simile malattia, non accetta se stesso e preferisce negare i propri sentimenti, nascondendoli sotto il velo della vergogna. In effetti, a chi non è mai capitato di desiderare di cancellare anche solo un giorno della propria vita per potersi difendere da passati scomodi?
Difficile però a conti fatti poter mantenere la propria identità negando pezzi che, volente o nolente, fanno parte di noi.
Ecco che l’indagine di Leonard diventa l’unico movente che giustifichi ancora un’esistenza compromessa per sempre. Ecco che per ricostruire il complicato puzzle della sua vita ha bisogno dell’aiuto dell’amico Teddy (un ottimo Joe Pantoliano). Potrà davvero però fidarsi di lui e di tutte le altre persone che li ruotano attorno? Come Leonard, anche noi, nelle nostre vite quotidiane, dobbiamo affrontare domande alle quali, non sempre, possiamo dare risposte.
Memento è un film che, vista la sua complessa struttura, richiede massima attenzione e probabilmente necessita anche di più visioni per essere compreso nella maniera adeguata. Però questo non è un difetto, ma una caratteristica comune a tanti capolavori.

Recensione pubblicata anche su www.scheletri.com (gennaio 2006)

Davide Battaglia

venerdì 15 giugno 2007

Conan, il ragazzo del futuro

Tutto deve ricominciare…

Titolo originale: Mirai ShOnen Conan
Regia: Hayao Miyazaki, Keiji Hayakawa, Isao Takahata
Animazione: Hayao Miyazaki, Yasuo Otsuka
Anno: 1978
Produzione: Giappone
Durata: 26 episodi da 25 min.
Genere: fantascienza

Se i calcoli sono esatti, tra poco meno di un anno – quindi nel 2008 – dovrebbe esserci la fine del mondo. Almeno per come lo intendiamo noi oggi. Il tutto sarà causato da una terza guerra mondiale combattuta a base di bombe magnetiche (ben più potenti e distruttive di quelle atomiche!) che distruggeranno in poche ore la superficie terrestre… perfino l’asse di rotazione del nostro pianeta verrà spostato e i continenti si frattureranno inabissandosi negli oceani.
Solo poche persone riusciranno a salvarsi e rimarranno isolate nei pochi territori emersi… dovranno ricominciare da zero, ma, come sempre, l’ostinazione del genere umano avrà il sopravvento e in qualche modo riusciranno ad andare avanti.

In poche parole questo è lo scenario in cui si muove Conan (non il barbaro, ovviamente), un ragazzino di undici anni nato dopo la catastrofe su un’isoletta (chiamata l’isola perduta) dove un gruppo di astronauti precipitarono nel tentativo di scappare fuori dall’orbita taerrestre.
Siamo nel 2028 e Conan vive con suo nonno, l’unico degli astronauti sopravvissuti, conducendo un’esistenza semplice e intimamente legata alla natura, credendo che non esistano altri essere umani sulla Terra.
Il ritrovamento, sulla spiaggia della piccola isola, di una ragazza priva di sensi, sconvolgerà la vita di Conan…
Lana, questo il nome della ragazza, rivela che molte altre persone sono sopravvissute alla catastrofe, e che nella sua isola di Hyarbor la gente vive in pace e armonia, anche se minacciata dall’aggressiva società di Indastria, praticamante l'unica città-stato ancora basata sulla tecnologia rimasta sulla Terra.
Conan conoscerà ben presto le cattive intenzioni di questa fantomatica Indastria dal momento che un’aereo partito proprio da lì giungerà sull’isola perduta, ucciderà il nonno e rapirà Lana, dando il via a un’avventura lunga 26 episodi (quasi 11 ore).

Quando Conan apparve per la prima volta sugli schermi televisivi italiani – anche se ero ancora un pivello (come tutti quelli della mia generazione) – ci rese conto di essere innanzi a qualcosa di leggermente diverso dai soliti robottoni alla Go Nagai (per carità, non sputerò mai nel piatto in cui ho mangiato per tanti anni, ma Ufo robot, Mazinga & Co. non hanno un’unghia dello spessore che può vantare il cartone di Miyazaki).
L’elevata qualità artistica e tecnica di questa serie animata sorprende se si pensa che in quegli anni la televisione (soprattutto quella di intrattenimento per l’infanzia) stava muovendo i primi passi e non è un caso che, nonostante Conan sia rimasta (fortunatamente) una mini serie senza seguiti o prequel, a differenza dei più popolari anime, abbia un folto numero di estimatori, non solo tra i nostalgici trenta-trentacinquenni che la guardavano da infanti, ma anche tra gli adolescenti di oggi, più smaliziati e abituati a ben altri prodigi di tecnica, rispetto ai loro coetanei di fine Settanta.
Le ambientazioni fuori dai canoni tradizionali (molti i riferimenti al paesaggio e all’architettura degli anni Quaranta, chiaro rimando alla Seconda Guerra Mondiale e al disatro atomico di cui il Giappone fu vittima) e le tematiche ambientaliste (facile distinguere la dicotomia bene-male, la prima rappresentata dai contadini e dalla natura, mentre la seconda, dall'industria e le macchine) lo rendono uno dei prodotti di animazione più interessanti dell’intera produzione giapponese e all’epoca rivelarono la bravura e la delicatezza di un autore come Hayao Miyazaki, destinato col tempo ad essere riconosciuto come il più grande regista giapponese di – adoro questo termine che oggi non si usa quasi più - “cartoni animati”.
Personalmente, nel rivedere qualche episodio a distanza di più di vent’anni, ho notato quanto la nostalgia per il passato sia il tema portante di tutta la storia che, seppure nella sua semplicità, riesce a portare lo spettatore a riflettere.
Non per mezzo del solito buonismo che accumuna tante produzioni di oggi, ma con qualcosa di più profondo e raro.
Un piccolo gioiello da riscoprie.

Davide Battaglia

mercoledì 6 giugno 2007

Mulholland drive

Un incubo ad occhi semichiusi

Titolo originale: Mulholland drive
Regia: David Lynch
Anno: 2001
Durata: 145 minuti
Produzione: USA
Genere: drammatico/surreale
Voto: 9

Ecco che, come avevo anticipato il giorno che ho inaugurato questo blog, l'Interstellar Overdrive compie il suo primo viaggio fuori dall'orbita della fantascienza.
Per farlo ho scelto qualcosa di molto impegnativo e, in realtà, non così lontano dalle tematiche che regolano le opere fantastiche. Sto per parlare di Lynch e, in questo caso, ogni etichetta, ogni schematizzazione, ogni tentativo di classificazione - passatemi l'eufemismo, sempre che non venga censurato - va a farsi fottere.
Difficile, veramente difficile scrivere qualcosa su quest’opera di David Lynch, senza rischiare di cadere nel banale (riempendo la recensione di aggettivi quantomai abusati) oppure di perdersi negli intricatissimi risvolti narrativi (cercando magari di dare una, o peggio ancora, diverse interpretazioni a ciò che si è visto).
In questo percorso tortuoso è perfino arduo capire dove si trovi l’inizio e dove la fine. Si può passeggiare, come uno a caso dei tanti personaggi, lungo l’anello che contiene la storia (più o meno circolare), all’infinito.
Il cinema di Lynch è formato da episodi limpidissimi e talvolta spiazzanti come “The elephant man”, “Cuore selvaggio” e “Una storia vera” (il suo film più intimista) e da pellicole che avrebbero fatto la gioia di Sigmund Freud come “Velluto blu”, “Strade perdute” e, per l’appunto, “Mulholland drive”.
Vi è mai capitato di addormentarvi e sognare qualcuno che avete incontrato (anche solo di sfuggita) durante il giorno? Oppure di sognare persone che conoscete bene, ma che nel sogno hanno qualcosa di diverso dalla realtà? Di sognare ricordi che credevate aver rimosso e che poi riemergono come intatti oppure distorti? Di sognare vecchi amori infranti come fossero ancora tangibili? Questo è “Mulholland drive”: un film sulla schizofrenia (Diane assomiglia tanto a Fred Madison di “Strade perdute”), e il sogno è all’incirca un meccanismo schizofrenico, un gioco di scatole cinesi ingannatrici.
Penso sia davvero inutile cercare l’interpretazione intesa come spiegazione; sono state scritte davvero troppe parole al riguardo, lo stesso Lynch ha affermato che il film è nato da un suo sogno, e i sogni, lo sappiamo, si ancorano al nostro inconscio, diverso in ognuno di noi e, a mio modestissimo parere, difficilmente psicoanalizzabile seguendo schemi e formule precise.
Qualcuno dice che la prima parte del film rappresenti l’oniricità, mentre la seconda incarni la dura realtà. Qualcuno dice che è solo la triste storia di un amore non corrisposto. Altri sostengono che forse Diane non si sia mai nemmeno alzata da quel divano e abbia sognato tutto, ma sarebbe come sostenere che Noodles in “C’era una volta in America” non avesse mai lasciato la fumeria d’oppio. E chi siamo noi per pronunciare simili affermazioni?
Io dico che, se così fosse, si cercherebbe di ridurre a schemi razionalisti una pellicola prettamente “surrealista”, e non penso che questo sia possibile (perlomeno io non ne ho le capacità).
L’unica cosa che posso asserire senza dubbi di sorta è che “Mulholland drive” provoca in me, ogni volta che lo rivedo, un elevato piacere estetico. Questo è lo scopo dell’arte, a prescindere da qualsiasi significato più o meno implicito possa contenere.

Davide Battaglia