giovedì 31 dicembre 2009

WE DIE YOUNG


Il viaggio senza ritorno degli Alice in Chains

Lo studio o il semplice sguardo di forme e pensieri lontani, sia dal punto di vista temporale che da quello geografico, può risultare difficoltoso per la mancanza di fonti appropriate, spesso mediate da interpretazioni distorte, oppure essere particolarmente agevole per il privilegio di un coinvolgimento marginale. Per chi ha vissuto la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta, nel pieno della propria adolescenza, entrambe le sopracitate prospettive appaiano però quanto mai lontane dalla verità.
Anche allora – correva l’anno 1991 – chi masticava un poco la musica, aveva l’impressione che quell’abusato ed estremamente localistico termine (sinonimo stesso della città di Seattle), fosse stato creato ad arte per arricchire discografici e mass-media. Già, perché tutti noi, mossi i primi passi in ambito hard-rock e metal, ci chiedevamo quasi ingenuamente cosa mai avessero in comune gente come Nirvana, Soundgarden o Pearl Jam. Quello che nessuno poteva negare era una sorta di allontanamento da un certo tipo di suono pulito che da qualche anno la faceva da padrone, a favore di un più marcatamente grezzo e sanguigno “sporco” che ricordava molto certe sonorità anni Settanta. Ecco come vedevamo noi il grunge, come un semplice ritorno al passato di un genere che stava attraversando un periodo di crisi, confermata dal crescente calo di popolarità e dalla latitanza di idee innovative.
Non c’era nulla di nuovo, di autentico, di elitario. C’era solo l’ennesimo manipolo di business-man che aveva fiutato l’affare; le stesse camicie di flanella erano una semplice necessità per gli abitanti delle boscose e fredde campagne dello stato di Washington, non certo una moda. Ed è forse anche per le frequenti piogge che i ragazzi preferivano chiudersi nei bar o nei sottoscala a stremare amplificatori e distorsori piuttosto che uscire e giocare a football. È probabile che perfino adesso, a quasi quattro lustri di distanza, sia in voga tra i giovani la stessa pratica. Peccato che a nessun discografico interessi più.

Ci sono stati gruppi, poi, che con il fenomeno grunge avevano ancora meno a che fare, dal momento che nelle loro produzioni appariva lontanissima la rabbia punk dei quasi dimenticati Mudhoney, considerati dalla maggior parte della critica, i primi esponenti del genere.
Semmai, il punto di contatto, risiedeva in un tono depresso e pessimista della poetica che accompagnava una musica che, a conti fatti, non aveva nulla di ribelle in quanto manifesto di decadenza nichilista e autodistruzione.
Alice in Chains, è l’epiteto di un malessere dichiarato al mondo intero. Ad un appassionato di cinema può ricordare il titolo di un B-movie appartenente al filone “women in prison” partorito dal calderone dell’explotion anni Settanta (in effetti gli esordi della band si rifanno molto al glam rock un po’ sessista stile Gun’N’Roses e Motley Crue), in realtà l’Alice in questione è una povera e martoriata creatura che lotta ostinatamente (e inutilmente) contro le pesanti catene della vita, la cui unica via d’uscita è quella di farsi imprigionare da catene ancora più pesanti.
Tempi dilatati, arpeggi sinistri e voce funerea ma al contempo feroce, sono gli elementi caratteristici di una parte della produzione degli Alice in Chains, inesorabilmente influenzata dal fantasma della tossicodipendenza del vocalist Layne Staley. I testi parlano di droga, morte, solitudine, non risultando mai come gratuito inno all’autodistruzione, ma piuttosto come drammatica e inascoltata richiesta d’aiuto.
Quando gli Alice pubblicarono Facelift, il loro primo album, Nevermind avrebbe dovuto attendere ancora un anno prima di vedere la luce e sconvolgere il mondo discografico. È il 1990, in quel periodo i Nirvana si muovono su coordinate vicinissime al punk, i Soundgarden scimmiottano Led Zeppelin e Black Sabbath, mentre i Pearl Jam non esistono ancora. Ecco che un gruppo nato nei celebri Music Bank della città statunitense, inizia a creare una forma per certi versi legata al metal mainstream, esasperandone però i lati più claustrofobici, spesso rallentando il beat, e inasprendola con toni cupissimi, quasi gotici, che si rifanno alla tradizione dark.

Gli artefici di questo particolarissimo sound fatto di oscure chitarre metalliche accordate quasi sempre in Dropped D (la sesta corda viene accordata in Re invece che in Mi, permettendo una maggiore estensione verso le note basse, oltre ad un suono più “pieno” nella tonalità di Re), unito a cupe e alienanti melodie generate dalla sovraincisione di molteplici linee vocali parallele, si chiamano Jerry Cantrell, talentuoso chitarrista e Layne Staley, geniale vocalist. Entrambi ottimi compositori, definirono in breve tempo il loro inconfondibile marchio di fabbrica insieme al batterista Sean Kinney e al bassista Mike Starr, sostituito nel 1993 da Mike Inez.
L’album d’esordio (Facelift, 1990), preceduto dall’Ep “We die young”, pone le basi alla produzione futura; si tratta di un disco a tratti ancora acerbo in cui spiccano già alcuni brani memorabili. Prima fra tutte le già citata e potente “We die young”, poi la sincopata ed epica “Man in the box” e la lunga e angosciante “Love, hate, love”, in cui ci si imbatte in un tempo lentissimo, dominato da suoni psicotici che raccontano una storia di sconsolazione, solitudine e ira. Il sound è solo abbozzato, ma già evidente: la chitarra di Cantrell corposa, e sempre in primo piano, si abbina alla voce di Staley che, nel pieno della sua veemenza giovanile, è capace di tracciare vocalizzi potentissimi e allucinati, anche se non ancora perfettamente rodati in termini di espressività. Il successivo Ep (Sap, 1992), contiene quattro brani (più una nevrotica ghost track), che stupisce pubblico e critica per la quasi totale assenza di arrangiamenti elettrici, un mini album infarcito da chitarre acustiche, pianoforte, leggere rullate di batteria e voce melodica, elementi che discostano il gruppo dalla semplicistica definizione di metallari.

Gli Alice conoscono un successo sempre crescente, accompagnato ovviamente da pressioni di ogni tipo. Iniziano i problemi con la droga, accentuati, nel caso di Layne, dalla figura di un padre alcolizzato e tossico che, dopo aver abbandonato la famiglia per parecchi anni, ritorna per poter sfruttare la popolarità e i soldi del figlio.
A questo punto, avventori del ghetto più disadattato dell’alternative nation, eredi in quanto a nichilismo e psicosi degli appena defunti Jane’s Addiction, gli Alice in Chains sfornano il loro capolavoro (Dirt, 1992). È il disco perfetto e al contempo manifesto del disfacimento in liquefazione dell’anima e del corpo. Non c’è tregua in Dirt, nessuna speranza di salvezza, nemmeno un attimo per respirare e già dal primo solco si è travolti da un granitico muro di chitarre e da un urlo di angosciante dolore che scaraventa in un abisso di decadente e inaudita violenza psicologica e sonora.
Ogni brano è un inno agli aspetti più espressivi del metal, dal fragore dei Metallica, all’oscurantismo dei contemporanei Soundgarden. Ogni testo parla di dolore e disperazione, di droga e solitudine. Sono le parole (facile a dirsi conoscendo l’epilogo della storia) di un uomo vulnerabile e della sua difficoltà a sbrigliarsi da una dipendenza più forte e invasiva di qualsiasi altra cosa: è l’inizio del viaggio senza ritorno.
L’anno seguente, rivela l’ennesima sorpresa: il quartetto, fresco di un nuovo bassista, sforna un altro Ep semiacustico (Jar of flies, 1994), questa volta però agli antipodi della scarna sobrietà di Sap. È un altro capolavoro, anche se lontanissimo dalla dimensione sonora più congeniale al gruppo. Il suono è ricolmo di arrangiamenti che sfiorano il barocco, facendo per la prima volta parlare di “grunge progressivo”, aperto a riforme armoniche di varia natura. Spiccano in particolare l’indolente incedere onirico dell’opener “Rotten Apple”, il poetico intimismo di “Nutshell”, la fiabesca “I stay away”.

I problemi di tossicodipendenza del vocalist maudit, si fanno sempre più gravi e circolano le prime voci di scioglimento. In realtà è proprio Staley a rompere il silenzio, durato più di un anno, pubblicando l’interessante “Above”, digressione di blues acido e psichedelico, insieme a McReady dei Pearl Jam e a Martin e Lanengan degli Screaming Trees, sotto l’appellativo di Mad Season.
Qualche mese più tardi esce un po’ a sorpresa quello che sarà l’ultimo lavoro in studio del quartetto (Alice in Chains, 1995). L’album, senza titolo, noto anche come “Tripoid” per via del triste cane a tre zampe rappresentato sulla cover, segna il totale abbandono a qualsiasi riferimento blues, perde in potenza rispetto al suo predecessore Dirt, guadagnando in umore cupo e atteggiamento oltremondano. È un perfetto esempio di post-rock strutturato, qualcuno scriverà che l’ascolto è un’esperienza simile alla contemplazione distaccata del proprio cadavere. Dal punto di vista musicale, si assiste forse a un leggero passo indietro; la stessa interpretazione del cantante non è all’altezza del passato (l’evidente affaticamento è in parte sopperito dal solito mare di sovraincisioni che, seppur sempre suggestive, celano parzialmente la difficoltà a reggere le linee melodiche più impegnative), eppure proprio qui, Cantrell e Staley raggiungono una maturità compositiva sorprendente, in cui la notevole profondità delle liriche, trova il giusto equilibrio con l’andamento plumbeo e funereo delle partiture strumentali.
Da questo momento in poi, resta solo il tempo per una manciata di concerti come spalla dei Kiss, per la registrazione di uno spettacolo acustico per Mtv, e per la solita e inflazionistica pubblicazione di raccolte di vario genere (a parte l’interessante cofanetto Music Bank, dove si possono ascoltare demo e brani inediti).
Le pessime condizioni di salute di Staley, associate a una depressione aggravatasi dopo la morte nel 1996 dell’unica ragazza che avesse amato, lo porteranno inevitabilmente in fondo al baratro, sancendo una prematura fine artistica che anticiperà di qualche anno la sua morte. L’artista fu trovato senza vita il 19 aprile 2002, a venti giorni di distanza dalla data del decesso. Vegeteva da tempo in completa solitudine destinato a un’uscita di scena triste e silenziosa, lontana dai clamori della più nota e idolatrata icona di Seattle.

Il rock ha avuto tanti figli spezzati dai loro stessi sogni… uno in più non cambierà certo la storia. Chi ha avuto la fortuna di conoscere Layne, però, può affermare che non possedeva nemmeno in minima parte l’ego ipertrofico della rockstar, “una persona troppo vulnerabile, nervo ipervibrante esposto ai dolori del mondo che non riusciva a reggerne l’onda d’urto”.
Nessun regista racconterà i last days di Layne, nessuna vedova lucrerà sulla sua immagine di dannato. Probabilmente, pochi si ricorderanno nei decenni a venire dei meriti di questa grande band. Rimane forse la magra e un po’ patetica consolazione di sapere che Alice ha finalmente spezzato le sue catene ed è volata via.

Davide Battaglia