venerdì 19 ottobre 2007

La maschera del demonio

Alle origini del cinema gotico italiano

Titolo originale: La maschera del demonio
Regia: Mario Bava
Anno: 1960
Produzione: Italia
Genere: horror
Durata: 84 min. (B/N)
Cast: Barbara Steele, John Richardson, Ivo Garrani
Voto: 8

Nel panorama della cinematografia italiana esistono autori declamati che rimarranno, con ogni probabilità, impressi nella memoria comune (oltre che sulla celluloide) in eterno. Esistono poi personaggi ingiustamente dimenticati, nonostante il loro contributo alla settima arte sia stato fondamentale. Fortuna che all’estero (Stati Uniti e buona parte dell’Europa) si ricordano ancora di un “piccolo e modesto” ometto che, da abile artigiano qual era è riuscito a trasformarsi in geniale artista, approfittando della metamorfosi che, tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio dei Settanta, coinvolse la società italiana, scandita – in buona parte – dalla nascita e diffusione della televisione. Il tanto discusso elettrodomestico accelerò il processo di laicizzazione mostrando a un pubblico in piena fase di ripresa post bellica e conseguentemente altamente ricettivo, un costume più spregiudicato e disinibito. L’opera di Mario Bava, attivo come regista dal 1960 al 1980, si inserisce proprio in questo contesto: dall’avvento della televisione di Stato al proliferare delle tv private, dalla produzione di melodrammi sentimentali imperante fino agli anni Cinquanta all’avvento dell’erotismo e della violenza che domineranno le pellicole degli anni Sessanta e Settanta. Cambiava il popolo, il modo di pensare e cambiavano le componenti delle storie che coinvolgevano il popolo stesso; una trasformazione veicolata soprattutto da due generi che conobbero il loro apice commerciale proprio in quel periodo: la commedia e l’horror. A Bava spetta, con unanimità di pensiero, la responsabilità dell’invenzione del cinema gotico italiano, e il primato (insieme a Riccardo Freda) per aver infranto il divieto di produrre pellicole appartenenti a un genere non gradito al regime fascista. Se è pur vero che il maestro ligure (sanremese per la precisione) attinge a piene mani dalle gesta di produzioni estere – quelle a lui contemporanee dell’inglese Hammer, e quelle più classiche della Universal degli anni Trenta e Quaranta – è altrettanto vero che riesce a permeare ogni sua opera con uno stile unico e originale, che nega il carattere di puro intrattenimento posto all’origine, grazie al connubbio di tre elementi differenti: il fantastico, l’ironia e la ricerca visiva, miscelati a una grande preparazione tecnica acquisita in anni di attività all’Istituto Luce, dapprima nel ruolo di operatore, poi come direttore della fotografia e in seguito come capo del reparto trucchi, imponendosi come realizzatore di effetti speciali. Tutta la sua abilità è condensata in questo monumentale esordio: “La maschera del demonio” sottolinea anche la sua capacità di stravolgere un’idea di partenza, di rielaborare una sceneggiatura che, tratta da un racconto di Gogol carico di ironia, atmosfere surreali e atteggiamenti fantastici, si trasforma in un condensato di crudeltà, ribrezzo e macabro. Avvolto da un paganesimo atavico ammantato di Romanticismo risulta totalmente estraneo all’opera originaria di Gogol. Unico elemento a permanere è quel senso di precarietà tipico delle rappresentazioni della nobiltà russa che avrà in Checov uno dei suoi massimi cantori. Non mancano i riferimenti al Dracula letterario e all’eterna contrapposizione tra Bene e Male, ma l’elemento centrale ruota attorno alla minaccia al tabù morale, prodotto dal “mostro” sotto forma di provocante fanciulla, attraverso comportamenti sessuali giudicati dalla società (e a maggior ragione da quella di quarant’anni fa) devianti e perversi, creando un effetto di repulsione-attrazione per mezzo di immagini “scandalose”. Tema che resterà predominante per quasi un ventennio, almeno finché il pubblico non risulterà sufficientemente smaliziato e avrà bisogno di ben altri incubi e paure per poter essere appagato in modo soddisfacente. Ad incarnare questo seducente terrore troviamo una giovane quanto affascinante Barbara Steele, che con i suoi particolari lineamenti, avrà un ruolo fondamentale nella nascente poetica della “ginecofobia”, come è stata definita da alcuni esperti del cinema di quel periodo. La struttura della pellicola è contraddistinta da una sorta di dicotomia riscontrabile sia nella caratterizzazione dei personaggi (su tutti, ovviamente, il doppio ruolo della protagonista), sia in quella dei luoghi: la contrapposizione tra la locanda (e il villaggio che essa rappresenta) e il misterioso castello è un altro chiaro rimando alla letteratura Ottocentesca. Ma Bava, con un’intuizione geniale, si diverte a mettere in discussione certe convenzioni, associando, per quasi tutta la durata del film, il male alla luce – basta pensare al volto della strega Asa, nella seqenza iniziale che mostra la sua esecuzione, illuminato da un bagliore quasi “sacro” – paragonato al buio che avvolge i sarcedoti – che starebbero invece a simboleggiare il bene. Il castello e i giardini che lo circondano appaiono in evidente disfacimento e simboleggiano il degrado morale degli stessi personaggi. Gli altri immancabili ambienti, comuni ad ogni classico film horror, sono il bosco dalla fitta vegetazione che avvolge la carrozza su cui viaggiano i due dottori, e il cimitero, luogo sconsacrato, da cui risorgono le vittime della strega per compiere il suo volere. Bava condisce tutto con un bellissimo bianco e nero che gli permette oltretutto di mostrare quello che, fino a prima di lui, veniva considerato non mostrabile, restituendo al genere fantastico quella fisicità che gli appartiene di diritto. Il bianco e nero assurge a nuovo mezzo comunicatore mantenendo immutato, al contempo, il fascino del suo gusto retrò. Per accorgersi della grandezza di quest’opera è sufficiente recuperare il dvd edito dalla RHV e ammirare, oltre al film, il documentario “Mario Bava: Maestro of the Macabre”, ascoltare le testimonianze di registi come Tim Burton, John Carpenter o Joe Dante, che tessono giustamente le sue lodi, così come nessun altro in Italia ha mai fatto sufficientemente e, magari, commuoverci per un passato remoto che non tornerà più.

Articolo di Davide Battaglia
pubblicato su Viaggia l'Italia n°35, Clementi Editore, dicembre 2006

lunedì 15 ottobre 2007

Planet Terror

L'allievo supera il maestro

Titolo originale: Planet Terror
Regia: Robert Rodriguez
Anno: 2007
Produzione: USA
Genere: horror/fantascienza
Durata: 115 min.
Cast: R. McGowan, M. Shelton, M. Parks, F. Rodriguez, J. Brolin, B. Willis, Q. Tarantino
Voto: 8

Giudizio personale e per questo opinabilissimo, ma se il più capace, elaborato e colto Quentin, nel suo Death Proof, rimane un po' indeciso su quale direzione prendere, appesantendo il suo film da un paio di scene estremamente lunghe e noiose, condite da dialoghi non all'altezza della sua fama, il figliol prodigo Robert centra in pieno il bersaglio con il suo esageratissimo contamined movie, che strizza l'occhio al cinema di Lenzi (in particolare al trashone "Incubo sulla città incontaminata"), di Romero, di Carpenter e al suo "Dal tramonto all'alba".
La trama di questa nefanda meraviglia è quanto di più banale e stereotipato possa esistere: una preoccupante e misteriosa arma chimica, dall'aspetto di una nube verde, si propaga in una cittadina statunitense di provincia, causando mutazioni in quasi tutti gli abitanti, fino a trasformarli in creature simili a zombie. Fortunatamente, non tutti vengono colpiti dalla nube; tra questi, Cherry (Rose McGowan), una ballerina di go-go dance e il suo ex ragazzo Wray (Freddy Rodriguez), tenteranno di porre fine alla minaccia dei mutanti affrontando anche con un battaglione dell'esercito comandato da un ufficiale senza scrupoli (Bruce Willis).
La bravura di Rodriguez risiede nel fatto che la sua pellicola, presentando tutte le caratteristiche tecniche riscontrabili in quella di Tarantino (graffi, spuntinature, bobine che sono andate perdute o che, improvvisamente, prendono fuoco... con tanto di messaggio di scuse), può giovare di un maggiore ritmo, di una maggiore ironia, di una maggiore tensione e, grande sorpresa, perfino di una sottotrama amorosa, particolarmente azzeccata.
Che il film risultasse un grande giocattolone con l'unico scopo di divertire, si sapeva, ma che il regista fosse in grado di metterlo in scena con questa enorme carica ironica, non era altrettanto scontato. Fatto che rende "Planet terror", per certi aspetti, perfino superiore a "Dal tramonto all'alba".
Insomma, il difetto della metà di Tarantino risiede nel fatto che in alcuni casi sembra volersi prendere troppo sul serio e di cadere in qualche autocelebrazione di troppo; il pregio di quella di Rodriguez, seppure il tipo di pellicola probabilmente si prestava di più già in partenza, è invece quello di dimostrarsi totalmente divertente e folle, dal primo all'ultimo fotogramma.
Tutte queste considerazioni, devono essere prese per quello che sono e tenere presente il fatto che, in Europa, siamo stati costretti a visionare (colpa dello scarso successo al botteghino negli USA) un'opera diversa da come era stata concepita inizialmente.
Rimane la constatazione che l'operazione nel suo complesso merita un plauso e possa dirsi felicemente riuscita, non limitandosi a una semplice riproposizione di un genere che oggi non esiste più, né tantomeno a una banale parodia.
Grindhouse è un atto d'amore verso il cinema... esattamente come lo è 8 e 1/2 di Fellini.

Davide Battaglia

martedì 2 ottobre 2007

Hajime Sorayama

Lei, robot
Nato in Giappone nel 1947, Hajime Sorayama si laurea nel 1968 presso la Chuo Art School di Tokyo, e fin dai primi anni Settanta dà inizio alla sua brillante carriera, ampiamente documentata attraverso numerose pubblicazioni e mostre internazionali. Sorayama è infatti uno dei leader indiscussi nel campo dell'arte erotica, a livello erotica mondiale. Con il solo uso del pennello e della matita realizza opere che esplorano il tema dell'erotismo incentrandolo sull’esaltazione del corpo femminile, accarezzandone le infinite varianti: dal glamour ultrapatinato allo stile retrò delle pin-up, fino alle più moderne tendenze delle donne cyborg e dell'estetica fetish di ultima generazione.
L'autore è famosissimo per le sue illustrazioni, al punto tale che è stato adottato il termine super-realismo, per definire il suo stile in un connubio di fantasia e immagini reali tanto sottile da lasciare il dubbio se le sue opere siano fotografie rese disegni. Le sue illustrazioni si differenziano in due correnti: quella che ripresenta la sensualità del corpo femminile e quella che affronta il tema della tecnologia futuribile. È naturale pensare che le due correnti spesso si fondano in rappresentazioni che pescano a piene mani dalle varie simbologie dell'erotismo, della mitologia, dalla biomeccanica e dalla fantascienza. La sua tecnica è molto raffinata: l'artista incide su fogli d'acrilico i contorni e i tratti principali del disegno, evidenziando solo alcuni particolari.
Il suo primo libro dal titolo "Sexy Robots" risale al 1983. A questo hanno fatto seguito una ventina di straordinari volumi, tra cui l’omonimo "Hajime Sorayama" (pubblicato dalla Taschen nel 1989), "Venom" (uscito nel 2004 in ben quattro edizioni e lingue diverse), fino al recentissimo "Relativision", pubblicato nel 2007.
La prima mostra personale di Sorayama si è tenuta nel 1988. Da allora, l’artista ha esposto svariate volte in Giappone, negli USA, dove nel 1996 gli fu assegnato il prestigioso premio Vargas Award, e in Germania (a Monaco e Colonia). Il 2005 ha visto la sua prima esposizione a New York, oltre all'apertura di un vero e proprio showroom dedicato interamente alla sua arte. Tra i più recenti successi di Sorayama, va anche ricordata la realizzazione per la Sony di "AIBO", il cucciolo di cane robot, oggi entrato a far parte della collezione permanente del MOMA, per il quale l'artista ha ricevuto due importanti riconoscimenti: il "Good Design Grand Prize Award" e il "Media Art Festival Grand Prize Award". Si sta concludendo proprio in questi giorni a Roma, presso la Mondo Bizzarro Gallery, la prima personale italiana di questo artista giapponese.
www.sorayama.net