venerdì 25 maggio 2007

Spider Man 3

Incorporeo come l('uomo)a sabbia

Titolo originale: Spider-man 3
Regia: Sam Raimi
Anno: 2007
Produzione: USA
Durata: 156 minuti
Genere: fantastico/azione
Voto: S.V.

Cosa c'entra il maestro Alfred Hitchcock con il terzo capitolo della saga dell'Uomo Ragno? Apparentemente nulla eppure, la chiave di lettura per il nuovo film di Sam Raimi, sta proprio in una storica affermazione del compianto regista inglese. Hitch sosteneva che "più è riuscito il cattivo e più è riuscito il film"... bene, in Spider-man 3 ce ne sono tre di cattivi (anzi quattro se si conta anche il lato oscuro dello stesso protagonista con il quale Peter Parker si trova a combattere per una buona metà) eppure nessuno riesce ad essere efficace quanto l'Harry Osborne di William Dafoe o l'Octopus di Alfred Molina.
È questo il principale difetto di una pellicola che, nonostante la sensibile durata – quasi due ore e mezza – presenta diverse lacune nella stesura della sceneggiatura.
Il film procede a singhiozzi, partendo in maniera eccessivamente lenta (stiamo pur sempre parlando di un fumettone), riprendendosi nella parte centrale e precipitando – è proprio il caso di dire – in un finale che aveva l’obbligo di “chiudere il cerchio” e togliere la troppa carne messa al fuoco precedentemente.
Usciti dalla sala si ha la sensazione di aver voluto tirare troppo la corda (o la ragnatela) ed essere rimasti a metà corsa senza benzina. Personaggi complessi e importanti nella vita di Peter come Gwen Stacy e Venom finiscono col diventare mere comparse, perni di singole scene che non trovano sufficiente sviluppo narrativo.
Probabilmente non sono nemmeno giustificabili le eccessive critiche perché le pretese di questo film sono ben lontane dal voler raggiungere l’immortalità di pellicole storiche, però Raimi – così come Nolan, Burton o Singer prima di lui – ha dato dimostrazione che il compromesso tra intrattenimento e autorialità non sia un’utopia.
Se qualcuno sostiene che non sia coerente paragonare lo Spidey di Raimi a quello di un McFarlane, o un Miller, o un Romita... – e la cosa è oltremodo condivisibile visto che il linguaggio cinematografico è differente da quello dei fumetti – è però vero che il film in questione assomiglia molto più a un fumettone piuttosto che ad una pellicola cinematografica.
In questo terzo episodio, le scelte autoriali di Raimi, forse forzate da altri soggetti e quindi, ci si domanda fino a che punto autoriali, non convincono appieno. Prima di tutto, l’incertezza che il regista mostra nel rimanere sempre in bilico tra commedia e dramma, esasperando i toni in entrambi i sensi e non riuscendo a trovare il perfetto equilibrio che aveva caratterizzato i due film precedenti. Restano soprattutto in mente, in senso negativo, l’ormai famigerato siparietto in stile Tony Manero che un Tobey Maguire, sopraffatto dal simbionte alieno, deve essere stato costretto con la forza a recitare (una delle cose più imbarazzanti e fuori contesto mai viste al cinema) e, in senso positivo, il cameo di un bravissimo Bruce Campbell nei panni di un cameriere francese pasticcione.
Solitamente con una trilogia si dovrebbe chiudere una saga, ma forse questo terzo capitolo dello stupefacente Spidey, è più un anello di congiunzione tra quello che è stato e quello che ci attenderà in futuro. Una sorta di lungo trailer che fa sperare noi inguaribili fan di poter vedere ancora il nostro amato ragno di quartiere volteggiare tra i grattacieli di New York.

Davide Battaglia

martedì 15 maggio 2007

Il labirinto del fauno

O della perdita della fanciullezza

Titolo originale: El laberinto del fauno
Regia: Guillermo del Toro
Anno: 2006
Produzione: Messico, Spagna, USA
Durata: 112 minuti
Genere: fantasy/drammatico
Voto: 8

Ambientato nella Spagna del 1944 poco dopo la fine della guerra civile spagnola, l'ultimo film di Guillermo del Toro (Blade 2, Hellboy, La spina del diavolo) racconta la storia di Ofélia (Ivana Baquero) che, trasferitasi insieme alla madre Carmen a casa del patrigno, il capitano dell’esercito franchista Vidal (Sergi López), soffre per i suoi modi freddi e autoritari. Troverà così rifugio in un misterioso labirinto che ha scovato vicino a casa, dove Pan, la magica creatura che fa da guardiano al labirinto, le rivela che lei è la principessa smarrita di un regno magico.
Secondo capitolo, dopo “La spina del diavolo” della “trilogia” (anche se ultimamente si tende ad un uso inflazionatistico del termine) fantastico-metaforica sulla Spagna franchista, concepita da Guillermo Del Toro.
La locandina e le etichette conferite dalla stessa casa di produzione (oltre che da una certa critica) farebbero pensare ad un titolo propriamente fantasy ed è per questo che mi sono accinto alla visione con qualche riserva. Riserve condizionate dal fatto che, soprattutto negli ultimi tempi, nutro un po' di allergia verso questo genere visto che, sempre più spesso, si assiste alla messa in scena di fiabe adatte soprattutto ad un pubblico infantile o al massimo adolescenziale che, con un uso spropositato di effetti speciali, risultano in ultima analisi, alquanto sterili sotto altri profili (tutto il rispetto verso la saga di Tolkien, diretta da Peter Jackson, che rimarrà - probabilmente - un caso unico di perfetto compromesso).
Non era il caso del relativamente recente tentativo (apprezzabile, anche se personalmente non completamente riuscito) del "Lady in the water" di Shyamalan e lo è ancora meno questo di Del Toro che, dopo un inizio un po' tentennante e dai ritmi eccessivamente blandi, si rivela ben presto un incubo spaventoso.
Contrariamente a quanto si possa immaginare, però, gli incubi non sono portati dai mostri che popolano gli abissi della terra frequentati dalla piccola Ofelia, bensì dagli uomini che sul piano della realtà provocarono il terrore con il loro regime dittatoriale nella Spagna franchista. Ed è qui che il film si rivela esattamente per quello che è: un dramma incentrato sulla guerra civile e sugli orrori provocati dal fascismo. Lo stesso regista non fa segreto dei suoi pensieri: “... il fascismo è innanzitutto una forma di perversione dell’innocenza, e quindi dell’infanzia. Per me il fascismo rappresenta in un certo senso la morte dell’anima, perché obbliga a compiere scelte dolorose, laceranti che lasciano un segno indelebile e profondissimo in coloro che lo hanno vissuto.” Ecco che il punto di vista di una bambina diventa l’ideale rappresentazione di una sorta di dicotomia, da una parte diretta (con una rappresentazione storica), dall'altra sotto forma di metafora (con la perdita dell'innocenza). Due forme narrative che alla fine si incastrano in modo perfetto.
La pellicola è totalmente avulsa da ogni consolante e adolescenziale considerazione, ponendo continuamente la piccola protagonista al centro di situazioni tragiche, che la costringono a scelte che non sono tipiche della sua età, e in una precoce perdita della fanciullezza.
Il risultato è un pregevole esempio di come si possa fare cinema di "genere" in modo "serio", drammatico e, concedetemelo, adulto.
Il labirinto è il luogo (mitico per eccellenza) dove la vicenda si risolve, richiamando in modo elegante anche lo Shining di Kubrick, sia dal punto di vista della tematica oltre che da quella figurativa, lasciando lo spettatore in sospeso e moltiplicando le possibili letture.
Un raggio di luce che però non riesce a cancellare il prorompente buio della tragedia, nemmeno con la seducente ambiguità della scena finale.

Recensione pubblicata anche su www.scheletri.com (dicembre 2006)

Davide Battaglia

giovedì 3 maggio 2007

I figli degli uomini

Un antieroe in infradito

Titolo originale: Children of men
Regia: Alfonso Cuaròn
Anno: 2006
Produzione: USA
Durata: 98 min.
Genere: drammatico/fantascienza
Voto: 7,5

Quante volte guardando un film si è portati a riflettere su come la fantasia degli autori tragga spunto dalla realtà, magari enfatizzandola (anche se abbiamo tutti imparato come spesso la realtà corra più velocemente e sia tragicamente più apocalittica di qualsiasi finzione) ed estremizzando le conseguenze delle più disparate azioni umane? Visionando “I figli degli uomini” si prova esattamente questa sensazione, ovvero di trovarsi di fronte a qualcosa di molto reale e non a una rappresentazione fantascientifica.
Slavoj Zizek, autorevole filosofo e critico culturale, parlando dell’opera di Alfonso Cuaròn, cita perfino Hegel e il suo “estetica” dove si sostiene che un buon ritratto assomiglia di più alla persona che la persona stessa o, in altri termini, un buon ritratto è meglio rappresentativo della persona che ritrae.
Questo è proprio quello che fa il regista messicano con il suo film: non punta verso una realtà alternativa, ma rende semplicemente la realtà più di quello che è già. In questo senso è stata decisiva la scelta di girare la pellicola conferendole un taglio documentaristico, facendo ampio uso di lunghi piano-sequenza e soggettive che seguono i protagonisti della vicenda come farebbe un reporter di guerra. Le stesse macchie di “sangue” che schizzano sulla mdp (originariamente furono un errore, ma alla fine Cuaròn e il suo direttore della fotografia Emmanuel Lubezki decisero – fortunatamente – di mantenerle) non fanno altro che accentuare questo senso di iper-realismo.
Il futuro brutto, sporco e cattivo che l’umanità si sta costruendo con le proprie mani è già davanti ai nostri occhi: migrazioni ambientali o socio economiche sempre più fuori controllo, globalizzazione senza freni, tensioni razziali e guerre civili, sono, in realtà, già il nostro presente. E fa poca differenza se lo scenario di tutto ciò non è un paese della ex Yogoslavia o uno stato del Medio Oriente, ma una Gran Bretagna (scelta che assume una valenza in più a causa della sua caratteristica di nazione tradizionalista per eccelenza) rimasta unico baluardo di un mondo che ha già varcato la soglia del collasso. Un baluardo che però assomiglia a un regime nazista, che, nella speranza di preservare le proprie barriere e assicurare i servizi minimi per i propri cittadini, ha cancellato il concetto di dignità umana di tutti gli altri. Le frontiere sono state chiuse, i profughi vengono espulsi (se non uccisi) dopo essere stati deportati in città trasformate in lager. Non esiste più una morale perché non esiste più un futuro e la tematica fantastica del film – la totale infertilità del genere umano – è solo la metafora di uno dei possibili olocausti.
Cuaròn (ma soprattutto la scrittrice P.D. James, autrice del libro da cui il film è tratto) ci parla anche della pericolosità delle utopie e dei soggetti che in esse credono ciecamente: bisogna temere le persone che amano più gli ideali che i propri simili, perché il passato ci ha insegnato che anche ideali buoni possono portare all’odio per chiunque abbia la facoltà di interferire con la realizzazione del sistema sognato.
Anche preservare l’arte diventa un’utopia e il David di Michelangelo salvato dalla fondazione per l’arte (insediata all’interno della celebre centrale per l’energia elettrica di Battersea) appare come un triste e decontestualizzato pezzo di marmo circondato da un ambiente totalmente asettico.
E il grande maiale con le ali che veleggia tra le torri della centrale (esplicito omaggio ai Pink Floyd e alla cover dell’album Animals, a sua volta riferimento all’allegorico romanzo “la fattoria degli animali” di Orwell) restituisce un’immagine ancora più terribile di questo presente. La musica riveste, infatti, un ruolo importantissimo: incentrata soprattutto su grandi brani degli anni ’60 e ’70 è, al contempo, sinonimo di nostalgia e testimonianza di quanto il mondo non si sia evoluto più da quei tempi fino al 2027, dove c’è poca tecnolgia rispetto al nostro presente e quella poca che c’è, è già malridotta.
Un film evocativo, pregno di significati e, probabilmente, utopistico allo stesso modo delle tematiche che mette in discussione. Tanti punti di riflessione non coadiuvati da una sceneggiatura non sempre all’altezza che rimane l’unico (ma non marginale) neo della pellicola.
Nonostante questo “I figli degli uomini” va visto e rivisto, sia per le sue apprezzabili soluzioni tecniche, sia per gli scottanti e attualissimi argomenti trattati. Non resta che seguire gli incerti passi dell’antieroe Theo-Clive Owen che, calzando comodi quanto inopportuni infradito, verrà travolto dagli eventi e sarà costretto, suo malgrado, a combattere la sua depressione e il suo nichilismo per restituire un futuro all’umanità.