martedì 24 aprile 2007

X_Science. Cinema tra Scienza e Fantascienza

Genova, 2-3-4 Maggio 2007, Seconda edizione
Ingresso libero

Scienza e Fantascienza al cinema, uno strano connubio per alcuni ma non per la Facoltà di Scienze Matematiche, Fisiche e Naturali dell’Università di Genova e il Genova Film Festival (Associazione Culturale Daunbailò), che uniscono le forze per realizzare la seconda edizione di X_Science: Cinema tra Scienza e Fantascienza. Con il contributo di Regione Liguria, Provincia di Genova, Comune di Genova, Festival della Scienza e con la preziosa collaborazione di Fandango, Warner Bros, Lab80 e Archivio del Genova Film Festival.

Tra il 2 e il 4 Maggio Genova, dopo il grande successo della scorsa edizione di X_Science, si propone così nuovamente alla ribalta del mondo della divulgazione scientifica con una manifestazione rivolta ad un pubblico sempre più attento, curioso e desideroso di comprendere.
La seconda edizione di X_Science: Cinema tra Scienza e Fantascienza, si terrà a Genova presso il Cinema Instabile e si arricchisce di matinée (dalle 10 alle 12) per le scuole presso il Museo di Scienze Naturali di Genova.
L’ ingresso sarà libero fino ad esaurimento posti.

L’evento è diviso in cinque “rami”:
X_Premiere: le anteprime tra lungometraggi e TV
X_Shorts: concorso nazionale di cortometraggi tra scienza e fantascienza, con un fuori programma sulla (Fanta)statistica
X_Feature: i lungometraggi
Matinée: proiezioni per le scuole al Museo di Scienze Naturali
La Notte della Fantascienza: capolavori del cinema di fantascienza americano degli Anni Cinquanta

Il programma prevede, nella serata di mercoledì 2 maggio, la proiezione in anteprima di Dark Resurrection atteso film diretto dagli imperiesi Angelo Licata e Davide Bigazzi, impegnati da alcuni anni nella realizzazione di questa opera ispirata all’universo di George Lucas. Gli autori presenteranno il film; la proiezione sarà ad inviti fino ad esaurimento posti (per info segreteria@genovafilmfestival.it).

Altra anteprima, venerdì 4 maggio, prima della Notte della Fantascienza, per Invaxön, alieni dallo spazio, i nuovissimi telefilm realizzati da Massimo Morini, Enzo Pirrone e gli infaticabili componenti dei Buio Pesto per Jimmy, canale satellitare di Sky dedicato alla fantascienza, dopo il successo ottenuto dal lungometraggio realizzato nel 2004. Il pubblico di X_Science potrà vedere in anteprima 4 puntate da 25 minuti del divertente telefilm che, conta la partecipazione di importanti guest star come Dario Vergassola ed Elio e le storie tese. Gli autori presenteranno i telefilm.

X_Shorts, la competizione riservata ai cortometraggi, vede in competizione otto opere di altrettanti autori provenienti da tutta Italia che saranno proiettate nella serata di giovedì 3 maggio e premiate dal pubblico nella serata successiva.

X_Feature proporrà due lungometraggi usciti quest’anno nelle sale italiane passati ingiustamente quasi inosservati: in collaborazione con Warner Bros verrà presentato A Scanner Darkly - Un oscuro scrutare (mercoledì 2 maggio, ore 22:30) di Richard Linklater e il documentario capolavoro di Werner Herzog, Grizzly man (giovedì 3 maggio, ore 22:30), presentato in collaborazione con Fandango.

La Notte della FantaScienza, che avrà luogo a partire dalle ore 24:00 di Venerdì 4, sarà una vera e propria notte bianca dedicata, quest’anno, ai capolavori del cinema di Fantascienza Americana degli Anni Cinquanta.
Ultimatum alla Terra (The Day the Earth Stood Still, Usa, 1951) di Robert Wise
L’esperimento del Dottor K (The Fly, Usa, 1958) di Kurt Neumann
Radiazioni BX, distruzione uomo (The Incredible Shrinking Man, 1957) di Jack Arnold

Le presentazioni dei film saranno curate dai componenti del Comitato Organizzatore di X_Science che sono: per la Facoltà di Scienze M.F.N. - Maurizio Martelli (Preside), Marilena Carnasciali, Teo Mora e Paolo Piccardo; per il Genova Film Festival – Cristiano Palozzi e Antonella Sica

Info: segreteria@genovafilmfestival.it
Tel. 010.5573958
www.genovafilmfestival.it

lunedì 23 aprile 2007

Sunshine

Niente di nuovo all'orizzonte... nemmeno il Sole

Titolo originale: Sunshine
Regia: Danny Boyle
Anno: 2007
Produzione: Gran Bretagna
Durata: 108 min.
Genere: fantascienza
Voto: 6

Anno 2057. Non se ne conosce il motivo (dati scientifici alla mano dovrebbe funzionare ancora una manciata di miliardi di anni), ma il Sole si sta spegnendo. L’ipotesi anche se inverosimile (ma a noi appassionati di fantascienza questo importa relativamente) è comunque affascinante e pone (o potrebbe porre) le basi per una serie infinita di domande: domande che inevitabilmente non possono trovare risposte certe.
L’unica e ultima possibilità di salvezza per la Terra risiede nel tentativo di riattivare le funzioni della nostra indispensabile stella attraverso lo sganciamento di una bomba atomica potentissima (realizzata con tutte le ultime risorse nucleari disponibili sulla Terra) diretta nel suo nucleo.
Ecco che la missione Icarus II, composta da un equipaggio di sette giovani astronauti scienziati, naviga alla volta dell’astro morente con il peso della responsabilità di non poter fallire.
Sunshine riunisce nuovamente e a distanza di cinque anni alcuni degli elementi che decreterano il successo di 28 giorni dopo (e questo è un bene): il produttore Andrew Macdonald, l’ormai affermato attore Cillian Murphy e lo sceneggiatore Alex Garland (che oltre ad aver realizzato lo script per 28 giorni dopo è stato, ahinoi, anche l’autore di The beach… e questo non è un bene).
È chiaro che al regista piace un certo tipo di fantascienza (diciamo quella più elegante di 2001, per esempio) e la verosomiglianza scientifica ed è palese che ci sia stato un grande lavoro imperniato su consulenze qualificate e una grande preparazione tecnica che ha coinvolto tutto il cast, dal responsabile della fotografia (Alwin Kuchler) a quello delle scenografie. Le sue dichiarazioni, inoltre, farebbero pensare di trovarsi di fronte a qualcosa di questo genere: “la questione di cosa succederebbe alle nostre menti quando incontrano il creatore dell’universo, che per alcune persone è un concetto spirituale o religioso, per altre è un’idea puramente scientifica. Siamo tutti fatti di particelle di stelle esplose, quindi come sarebbe avvicinarsi così tanto al sole, la stella dalla quale deriva la vita dell’intero sistema solare?
Se l’intenzione di Danny Boyle era quella di realizzare un’inedita odissea spaziale, capace di restituire nuova linfa alla fantascienza d’autore, condita da complesse sfumature psicologiche in bilico tra filosofia e teologia, dobbiamo purtroppo dichiarare l’esperimento fallito.
Se, altrimenti, spogliando Sunshine di ogni ambizione eccessivamente pretenziosa, lo scopo voleva essere quello di produrre una classica pellicola di Serie B che, pescando a piene mani da film come 2001, odissea nello spazio, Solaris e Alien, tende invece ad assomigliare molto di più a un Event Horizon, allora: Icarus II, missione compiuta!
Va comunque sottolineato il sempre originale stile “giovanilista” del regista inglese, un montaggio variabile e perfettamente al servizio dello svolgimento della trama, e la sua riconosciuta abilità nell’uso delle musiche, composte interamente dagli Underworld (quelli del tormentone “Born Slippy” dalla soundtrack di Trainspotting) che con un mix di elettronica e post-rock minimalista conferiscono alla pellicola quel pizzico di pathos in più.
Se vi piacciono le storie di astronavi sperdute nello Spazio che vanno incontro a una serie di spiacevoli imprevisti, allora Sunshine è film che fa per voi, in caso contrario cercate altrove il vostro Sole.

Davide Battaglia

sabato 21 aprile 2007

Roger Dean

Quando il fantastico incontra l'arte e la musica


Il nome Roger Dean dirà forse poco agli appassionati di arte, ma dovrebbe dire molto (almeno in teoria) agli appassionati di un certo tipo di rock.
La musica complessa, intellettuale, ridondante e spesso epica che dettava le mode e le regole agli albori degli anni ’70 (oggi si chiama progressive) si accompagnava perfettamente all’arte metaforica e fantastica di artisti come Paul Whitehead (illustratore delle copertine dei Genesis), Hypnosis (studio grafico autore delle cover dei Pink Floyd) e, soprattutto, di Roger Dean che ha legato il suo nome (e il suo successo) in particolare a quello degli Yes.
Nell’arte di Dean, così come nella musica rock progressive, si coglie facilmente l’incontro tra passato remoto e futuro e la convivenza (spesso anche antitesi) tra tradizione e avanguardia.
Molti gruppi, infatti, conciliavano suoni e strumenti di origine atavica a forme di sperimentazione estreme che trovavano nell’elettronica una fonte quasi inesauribile di scoperte. Non a caso il rock-prog pescava a piene mani sia dalla musica classica che dal jazz più moderno.
I colori, i personaggi e le forme immaginarie che popolavano le copertine di quei dischi erano quindi la rappresentazione di universi fantastici proiettati dalla musica. Una musica che il tempo ha dimostrato essere utopistica e che, come nel fantasy e nella fantascienza, raccontava di mondi definibili come “terre del sogno”.
Roger Dean incarna perfettamente questo sogno: le sue immagini si distinguono per una grande armonia, un senso di pace e serenità e un carattere prettamente fiabesco.
Il suo stile, fatto di immagini crepuscolari e colori tenui incarna una ricerca di contenuti che si ripropone in ogni sua opera conferendogli un vero e proprio marchio di fabbrica (annotazione che gli è valsa anche qualche critica) e che spesso non ha neppure un rapporto profondo e radicato con il contenuto del disco anche se ne riesce sempre a catturarne l’essenza.
Dean è inglese, classe 1944, e figlio di un militare; il lavoro del padre lo ha costretto a vivere per gran parte della sua infanzia e della sua adolescenza in giro per il mondo, portandolo a conoscere ambienti variegati e paesaggi esotici che hanno, probabilmente, condizionato la sua immaginazione e la sua visione dell’arte.
Tornato in patria, si diplomò come designer alla Canterbury School of Art, mentre nel 1968 si laureò presso il Royal College of Art di Londra.
Proprio in quegli anni iniziò a lavorare nel settore discografico realizzando la copertina dell’album di un gruppo chiamato Gun e, poco dopo, quella per gli africani Osibisa. Fu proprio quest’ultimo lavoro ad attrarre l’attenzione dei già popolari Yes che lo vollero per la rappresentazione grafica di quello che sarebbe diventato il loro primo capolavoro: Fragile.
Siamo nel 1972 e quest’opera, che a tutt’oggi rimane una delle più belle e complesse della sua produzione, mostra una sorta di globo terrestre ricco di acqua e vegetazione (due elementi ricorrenti nelle sue realizzazioni tanto da farlo affiancare ai nascenti movimenti new age) sorvolato da un oggetto volante antico e, al contempo, post-moderno che ricorda molto da vicino un’invenzione di Leonardo Da Vinci; forse un accenno alla sperimentazione e all’invenzione che gli stessi Yes stavano tentando con la loro musica.
Da lì in avanti Dean diventerà quasi un membro aggiunto del gruppo curando la quasi totalità delle copertine degli Yes, inventando il bellissimo e celebre logo e coreografando moltissimi loro concerti. Il mondo della musica progressive deve però molto all’artista inglese che tra le sue collaborazione ha annoverato, nel tempo, anche quella di molti altri gruppi di rilievo tra cui Uriah Heep, Gentle Giant (come non ricordare la spettacolare piovra dell’album “Octopus”) e Asia.
Personalmente, uno dei lavori che maggiormente apprezzo è la copertina interna dell’album manifesto (degli Yes, ma anche del rock anni ’70, oltre che di quel periodo storico) “Close to the edge”, che si contrappone alla disarmante semplicità di quella esterna, quasi a voler sottolineare che l’aspetto più importante di quel disco risiede al suo interno: la musica, appunto. Close to the edge è un paesaggio paradossale dove l’acqua di una cascata precipita in tutte le direzioni e dove le rocce “galleggiano” sospese per aria.
A testimonianza della completezza e della preparazione di questo artista bisogna ricordare come si cimenti in tecniche diverse contemplando l’uso dell’acquarello, della china, del carboncino, del collage e come si sia distinto anche nella realizzazione di progetti di architettura di interni ed esterni dove si riscontra la stessa armonia e anarchia di forme dei suoi dipinti.
Per ammirare i suoi lavori si consiglia di recuperare i volumi Views, del 1975, e Magnetic Storm, del 1984, oppure fare una visita al suo sito internet www.rogerdean.com
Buon viaggio a tutti.

Davide Battaglia

lunedì 16 aprile 2007

Avvisi ai naviganti

Tra fantascienza e noir

Stefano Roffo, Claudio Asciuti
De Ferrari Editore, Genova, 2006
208 pagg.
10 €

“Il futuro è cupo – esordì Loke dopo i convenevoli d’uso, la seconda sera che ci incontrammo – un mio vecchio conoscente, il signor Horbi, uomo che vede al di là del proprio naso, peraltro considerevole, sostiene che gli aerei della Luftwaffe faranno piovere molte altre bombe dai cieli dell’Est; in quegli stessi cieli Horbi li ha ‘visti’ bombardare anche a fine millennio… Ma questa volta senza le svastiche sulle ali…”

Uscito recentemente per la De Ferrari Editore di Genova il volume “Avvisi ai naviganti” raccoglie due romanzi brevi di due autori liguri: uno, Stefano Roffo (spezzino, classe 1955), un quasi esordiente nel campo del fantastico (anche se già autore di saggi su arte e turismo e, in particolare, del bel volume edito dalla Newton e Compton, “Guida curiosa ai misteri, ai segreti, alle leggende e alle curiosità di Genova”), l’altro, Claudio Asciuti (genovese, classe 1956), nome molto popolare per quanti bazzichino l’ambiente sf e fantasy, vincitore, tra l’altro, nel 1999 dell’ambito Premio Urania, con il romanzo “La notte dei Pitagorici”.
Il racconto di Asciuti, intitolato “Appuntamento ai Doganieri” è una sorta di ricerca personale del senso della vita in pieno stile Philip K. Dick (viaggi lisergici compresi). Grazie all’aiuto di una donna, figura "mistica" ricorrente, l’autore dimostra come l’allucinazione possa diventare la vera realtà, un po’ come nella cultura degli aborigeni australiani per cui il sogno è l’ombra della verità ultima delle cose.
Soffermandoci in particolare sull’opera di Roffo, intitolata “Unterwelt” (parola tedesca inventata dall’autore che corrisponderebbe alla traduzione dall’inglese di Underworld, sottomondo), si rimane colpiti dalla perfetta ambientazione storica che ritrae una Praga sotto assedio nazista, ancora più cupa e magica di quanto non fosse – e non sia tuttora – nella realtà, dove agiscono misteriosi personaggi, dal passato ancora più oscuro, all’ombra della celebre macchina Enigma, inventata dall’ingegnere tedesco Arthur Scherbius. Gli ingredienti, i riferimenti e gli ipertesti nascosti che condiscono questa novella sono davvero tanti e può sembrare riduttivo cercare di etichettarla in qualche modo, ma se il sottotitolo del volume indica il termine “cyber-noir” per delimitare i confini dell’azione, è forse l’introduzione di Domenico Gallo a centrarla perfettamente, individuando l’etichetta steampunk, ovvero il “punk della macchina a vapore”, corrente letteraria che si sviluppò contemporaneamente al cyberpunk e che riporta le tematiche, le angoscie e la commistione di tecnologia e cultura pop, nel passato anziché nel presente o nell’immediato futuro.
Per questo motivo Unterwelt trova un suo illustre punto di riferimento ne “La macchina della realtà” di William Gibson e Bruce Sterling, dove Rivoluzione Industriale e Rivoluzione Informatica si fondono per dar vita ad una fantascienza che tenta di riscrivere il passato dando un volto nuovo al futuro. Probabilmente, però, il testo che più di ogni altro sembra aver influenzato Stefano Roffo è “Il Golem”, pubblicato da Gustav Meyrink nel 1915. Questo essere, il cui nome ebraico indica una massa informe, è il vero protagonista di Unterwelt e rappresenta l’aspetto più fantascientifico dell’opera, riconducibile all’idea di donare la vita a qualcosa d’informe, o di creare l’organico dall’inorganico (tema ricorrente nella fantascienza).
Unterwelt però indica soprattutto un mondo sotterraneo che si sviluppa parallelamente a quello conosciuto e che, con un abile gioco di scatole cinesi, restitusce una sensazione di smarrimento e inquitudine, tanto ai protagonisti della vicenda, quanto ai lettori, portandoli a domandarsi se non ci sia davvero qualcun altro al di sopra di essi intento a manovrare degli invisibili fili.
Non resta che seguire l’ex comandante Edward Morris (che, guarda caso, con il suo scetticismo riguardo le convinzioni nazionalistiche, ideologiche e religiose ricorda molto da vicino il “collega” Corto Maltese) tra i vicoli, le scalinate, le fognature di Praga, alla ricerca di una verità che, una volta svelata, potrebbe essere più insopportabile di qualsiasi finzione.

Per chi fosse interessato all’acquisto: chiedere nelle migliori librerie di Genova, oppure consultare il sito www.deferrari.it

venerdì 13 aprile 2007

La mosca

Cronenberg: paura e desiderio

Titolo originale: The Fly
Regia: David Cronenberg
Anno: 1986
Produzione
: USA
Durata: 92 min.
Genere: fantascienza/horror
Voto: 8,5

Seth Brundle (Jeff Goldblum) è un giovane e ambizioso fisico sul punto di presentare una rivoluzionaria scoperta (bisognosa però di essere perfezionata). Durante una cerimonia conosce la giornalista Veronica Quaife (Geena Davis) che è in cerca di uno scoop. Brundle la invita nel suo laboratorio-casa e le mostra qualcosa di incredibile, un’invenzione capace di teletrasportare la materia. Tra i due nasce lentamente una relazione, infastidita però dall’ex amante di lei che è anche il direttore del giornale per cui Veronica lavora. Sarà questo tormentato rapporto “a tre” che condurrà Brundle, in un momento di cieca gelosia, a compiere l’esperimento di teletrasporto su sè stesso. L’esperimento, apparentemente riuscitissimo, avrà in realtà delle conseguenzi devastanti.

La bellezza di un film come “La Mosca” è racchiusa nella sua semplicità narrativa a cui si accompagna però una grande complessità interpretativa. Siamo di fronte a un horror che sfocia spesso perfino nello splatter, c’è più di un pizzico di fantascienza e non mancano i consueti elementi tanto cari a Cronenberg: la commistione tra macchine e carne, la metamorfosi del corpo (e della mente), l’approccio comunque romantico, mai in secondo piano nell’opera del regista canadese. È la sua seconda pellicola americana dopo il precedente “The Dead Zone” del 1983 e si tratta di una personalissima rivisitazione del film “L’esperimento del Dottor K” (1958) di Kurt Neumann che a sua volta si ispirò al racconto di George Langelaan. Già... anche all’epoca i registi d’oltreoceano sfornavano remake a più non posso, ma certamente la dose di creatività che vi inserivano non aveva nulla a che fare con le mere operazioni commerciali degli ultimi tempi (vedi, nello stesso periodo, anche Carpenter per “La Cosa”). Uno degli aspetti più interessanti della pellicola di Cronenberg è come sia riuscito a realizzare un film melò (chiaramente rappresentato soprattutto nel suo drammatico finale) senza che all’epoca molti se ne accorgessero, troppo attenti a etichettarlo (o se preferite ghetizzarlo) come “semplice” horror. I piani di lettura sono però molteplici, come dicevamo, a partire dalla degenerazione del corpo umano, possibile metafora di una qualsiasi malattia che costringe un condannato a morte all’isolamento, e della difficoltà che le persone care incontrano nel condividere una tale sofferenza; non tutti possiedono la forza o il coraggio di restare accanto a una persona amata gravemente malata fino alla fine. Come dice Enrico Ghezzi nel suo libro “Paura e desiderio” quello che Cronenberg ci racconta è “l’angoscia umanistica per il destino del corpo”. Il proprio come quello degli altri.
Vi si ritrova, inoltre, una abbastanza esplicita critica alla società moderna rappresentata da un uomo che cerca di correre più veloce del mondo, ma da questa corsa è travolto.
Il tutto è condito da una fotografia cupa, da scenografie opprimenti (il film è realizzato quasi esclusivamente in interni), da effetti speciali strabilianti per l’epoca (realizzati da Chris Walas e Stephen Dupuis premiati in questa circostanza con l’Oscar) e da attori perfetti (Jeff Goldblum, è probabilmente alla sua migliore interpretazione). Disgusto e commozione: il dramma kafkiano è compiuto.
Recensione pubblicata anche su www.scheletri.com (gennaio 2006)

Davide Battaglia

venerdì 6 aprile 2007

Il tredicesimo piano

Io penso, dunque sono

Titolo originale: The Thirteenth Floor
Regia: Josef Rusnak
Anno: 1999
Produzione: USA/Germania
Durata: 100 min.
Genere: fantascienza
Voto: 7,5

A volte sembra che siano i film a scegliere noi e non il contrario...
Mi trovavo a Parma, MrBlu mi ha chiamato dalla cassa del Mediaworld - io ero distante qualche metro e non ho capito subito se si stesse rivolgendo a me - e mi stava chiedendo, gesticolando, cosa ne pensassi di questo film... io chiesi "parli con me?"... lui: "si"... "e che ne so io, non l'ho mai visto... mi sa di vaccata... si, vabbè costa 6 euro, però io non lo comprerei".
Una settimana dopo - cercavo informazioni su Matsumoto (il creatore di Capitan Harlock) e mi ricordavo di aver visto qualcosa su un almanacco della fantascienza di Nathan Never - sbirciando nella mia libreria ho trovato, per caso, nello stesso volumetto, una mini-recensione de "Il tredicesimo piano"; l'autore del testo ne tesseva le lodi insieme ad altre due pellicole uscite nello stesso periodo: Matrix ed Existenz.
Il giorno dopo, il dvd di questo film mi è capitato tra le mani mentre gironzolavo tra le bancarelle di Piazza Colombo, a 5 euro.
E' logico che lo abbia comprato: troppi metafisici segnali nel giro di così poco tempo, perché potessero essere ignorati...
Una volta visionato non posso che ritenermi pienamente soddisfatto. Non è un film perfetto e lo testimoniano in particolare alcuni buchi nella sceneggiatura - non entro nello specifico perché dovrei "spoilerare" troppo - ma glielo si perdona. Alcuni colpi di scena sono abbastanza intuibili e qualche approfondimento in più sulla coscienza dell'uomo non avrebbe guastato (insieme, forse, all'aggiunta di una manciata di minuti), però nel complesso il prodotto risulta ben realizzato e la storia molto coinvolgente.
Douglas Hall (Craig Bierko) e Hannon Fuller (Armin Mueller-Stahl), grazie ad anni di lavoro su tecnologie modernissime, riescono a ricreare una simulazione particolarmente realistica della Los Angeles del 1937. I confini tra realtà e gioco virtuale si fanno però pericolosamente sottili...
Molti - ho letto - l'hanno paragonato a Matrix, ma è proprio su questo che vorrei spendere due parole in più: entrambi i film sono usciti nel 1999 (anzi, il tredicesimo piano ha anticipato il cult dei fratelli Wachowski di qualche mese), di conseguenza è improbabile che si siano copiati a vicenda, inoltre il lavoro del quasi sconosciuto (almeno in Italia) regista tedesco Josef Rusnek è tratto da un romanzo - Simulacron 3 - scritto da un certo Daniel Galouye, addirittura nel 1973. Se qualche similitudine la si vuole per forza trovare, forse, vien più da pensare all'Existenz di Cronenberg, dove si confondono i confini tra mondo reale e mondo virtuale, ma anche in questo caso, vista la quasi contemporaneità dell'uscita dei due film, non si può parlare di "plagio".
L'unica pellicola che viene esplicitamente omaggiata da Rusnek è, probabilmente, Blade Runner. I personaggi virtuali del tredicesimo piano, nella loro presa di coscienza, ricordano molto i replicanti di Scott (o di Dick). Senza contare, poi, che l'appartamento di Hall assomiglia vagamente a quello di Deckard.
In definitiva, un buon thriller fantascientifico che, grazie anche alla ricostruzione di una Los Angeles degli anni '30, si tinge spesso anche di noir, e che un buon amante del genere non dovrebbe lasciarsi sfuggire.
Dispiace davvero che alla sua uscita nelle sale sia passato quasi inosservato e dispiace maggiormente che molti critici (o presunti tali) lo snobbino, definendolo un "miscuglio poco riuscito di fantascienza di ben altro livello, tra cui spicca il più affascinante Matrix".
Io stesso, che all'epoca dell'esplosione del fenomeno Matrix, rimasi estasiato da quella che consideravo una pellicola rivoluzionaria, una volta per tutte, smetterei di idolatrare quello che, in fin dei conti, è solo un buon film di fantascienza... e se non siete d'accordo con me... "Dark City" docet...
Recensione pubblicata anche su dvd forum

Davide Battaglia

mercoledì 4 aprile 2007

Il visionario di Hollywood

Il mondo fiabesco di Tim Burton

Il suo aspetto fisico, in particolare quegli strani capelli arruffati, che ricordano una delle sue più celebri creature, lo fanno sembrare una rock star, più che un regista hollywoodiano, ma la definizione di regista sarebbe, nel caso di Tim Burton, comunque limitativa. Lo stile e le tematiche che questo artista unico è riuscito a infondere alle sue opere fin dagli esordi, gli conferiscono indiscutibilmente l’appellativo di autore, definizione che è possibile usare nel suo significato più puro. I suoi film, caratterizzati da uno stile inconfondibile, hanno creato un vero e proprio genere che danza con perfetta agilità, dall’horror, al gotico, passando per la fiaba e il grottesco.
Quello che stupisce maggiormente, e allo stesso tempo conforta, è come Burton, nel tempo, sia riuscito a mantenere la propria identità e integrità anche all’interno dello star system di Hollywood e anche quando si è cimentato in produzioni su commissione (come nel caso dei primi due episodi di Batman o nel remake de Il pianeta delle scimmie), muovendosi nel campo del fantastico, ma conservando sempre uno sguardo personale e spesso autobiografico.
La critica lo apprezza ma spesso gli cuce addosso un’etichetta che lui sembra non gradire particolarmente; sarebbe in effetti un errore relegarlo a semplice creatore di atmosfere darkeggianti o cupe. Certo, l’oscurità è elemento fondamentale della produzione burtoniana, ma come affermato da lui stesso, la natura umana è il risultato dei contrasti tra la vita e la morte, tra la luce e il buio. Impossibile scinderli, nella vita come nell’arte, ed è per questo che Burton utilizza gli opposti e cerca di individuare il sottile confine che esiste tra gli estremi. L’esempio più lampante di questa ricerca lo si può ritrovare proprio in uno dei suoi ultimi film, Big Fish, in cui traspaiono colori vivaci e atmosfere oniriche di vaga reminescenza felliniana, in cui la fantasia è lo strumento perfetto per capire la realtà e per indagare i rapporti umani.
La carriera artistica di Burton inizia alla Walt Disney dove, giovanissimo, viene assunto come animatore. La sua abilità gli permette di esordire a 24 anni come regista di un cortometraggio animato, dal titolo Vincent (un omaggio al suo idolo Vincent Price).
Nel 1985 l'attore Paul Rubens lo sceglie per dirigere "Pee-Wee's Big Adventure", film in cui Burton riesce già a mostrare uno stile personale e visionario infarcendolo di elementi autoriflessivi, citazioni ed omaggi, nonostante l’opera risulti ovviamente acerba. Il grande pubblico lo conosce nel 1988 grazie al successo di “Beetlejuice - spiritello porcello” che vince anche l'Oscar per il miglior trucco. Dopo “Batman” (1989), è la volta di uno dei suoi film più belli in assoluto, la favola surreale di “Edward mani di forbice”, (1990), in cui spicca la bravura di un giovane e irriconoscibile Johnny Depp. Seguono l’esperimento di "Nightmare Before Christmas" (1993, da lui scritto e prodotto, ma diretto da Henry Selick), il biografico e splendido "Ed Wood" (1995, Oscar meritatissimo per il miglior attore non protagonista - Martin Landau nel ruolo di Bela Lugosi - e quello per i migliori effetti speciali di trucco.) ispirato alla vita del noto regista di B-movies (o Z-movie, se preferite), "Mars Attack!" (1996), "Il mistero di Sleepy Hollow" (1999, Oscar per la miglior scenografia), "Planet of the Apes" (2001), Big fish (2003), il remake di “Willy Wonka e la fabbrica del cioccolato” (2005) e, sempre nello stesso anno, “La sposa cadavere”, il secondo film, dopo NBC, interamente girato con la tecnica dello “stop motion”.
La Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia, giunta alla sua 64a edizione (29 agosto - 8 settembre 2007), lo premierà conferendogli il Leone d’oro alla carriera. Riconoscimento che ha un peso ancora più rilevante se si pensa alla relativa giovane età del regista americano.

Davide Battaglia

lunedì 2 aprile 2007

Rollerball, l'ultimo gladiatore

Titolo originale: Rollerball
Regia: Norman Jewison
Anno: 1975
Produzione: USA
Durata: 126 min.
Genere: fantascienza/drammatico
Voto: 8

Uno sport (o una forma di intrattenimento qualsiasi) può essere strumentalizzata da chi è al potere per distrarre la popolazione da qualcosa di decisamente più vitale (per dirne una a caso: la privazione della libertà)? In un mondo in cui le guerre, la sofferenza e la povertà saranno solo dei labili ricordi, potranno le multinazionali corporative (che nel frattempo avranno preso il posto delle nazioni) imporre scelte e decidere lo stile di vita della gente? Potranno condizionare e plagiare le menti controllando i mezzi di comunicazione e revisionando la Storia?
Nel 1975, il regista Norman Jewison e lo scrittore William Morrison, immaginano un futuro che - guerre, sofferenza e povertà a parte - assomiglia sinistramente al nostro presente.
Il rollerball non è semplicemente uno sport violentissimo e amorale, è una pratica con la quale il potere controlla le masse: è la testimonianza di come non ci sia possibilità di cambiamento, è l'annullamento del significato di dignità, esternazione di fascismo e nichilismo. Ma se un uomo, tale Jonathan E, riesce a cavalcare la cresta dell'onda in questo sport da dieci anni potrebbe anche restituire la speranza a qualcuno e mettere in discussione lo spietato sistema governativo... è per questo che la sua fine deve essere decretata.
James Caan è perfetto nel ruolo di gladiatore del XXI secolo. Con la sua faccia tesa e, allo stesso tempo, vulnerabile, incarna la forza di volontà di lottare contro il sistema anche quando si è soli; l'attore recita immensamente per tutto il film anche se raggiunge il punto più alto nell'ultima straziante scena, quando, simbolicamente, porta sulle proprie spalle la stanchezza fisica e il deperimento mentale di tutto il genere umano.
Il regista sostiene che, all'epoca, lo spaventava molto l'idea che una sola società potesse essere proprietaria di televisione, radio e giornali; è stata quella sua paura a permettergli di dar vita a un film fantascientifico ma profondamente impegnato dal punto di vista sociale e filosofico, prendendo spunto da un breve racconto letto su una rivista scritto dal giovane e sconosciuto Morrison (che collaborerà poi anche alla sceneggiatura), miscelando coreografiche scene d'azione a momenti di riflessione fissati sulla pellicola da una fotografia "glaciale". Un film particolare e piuttosto anomalo per essere una produzione statunitense (fu, per la maggior parte, girato in Inghilterra e Germania), emana un fascino tipicamente europeo, tanto da aver avuto un'incredibile successo nel vecchio continente ed essere stato aspramente criticato in patria (salvo assurde richieste, da parte di una fetta di pubblico americano, di potersi cimentare realmente in questo sport!).
Un personale (ma condivisibile) consiglio: lasciate perdere il remake del 2002 e gridate anche voi "Jo-na-than! Jo-na-than! Jo-na-than...."
Recensione pubblicata anche su dvd forum

Davide Battaglia