sabato 6 febbraio 2010

Genova, ritagli di cielo


Nel labirinto di forme, colori e profumi che questa città riesce ad offrire da secoli, ci si può perdere tra i suoi angoli più nascosti accompagnati dalle dolci note della musica del mare

È una città che si svela piano piano. È una città controversa, dalle forme insolite e dai colori abbaglianti. È una città affascinante che non smette mai di stupire anche chi ci vive da più di trent’anni. Genova, vecchia ma ancora superba signora che si è scrollata dalle spalle la leggera polvere che la ricopriva e che celava appena la sua disarmante bellezza.
È passato il periodo della sua lunga valenza industriale, sono lontani anche i clamori che accompagnavano i giganti del mare che salpavano da qui per portare centinaia di migliaia di anime in giro per il mondo; oggi, Genova rivive di una nuova linfa, alimentata da un crescente numero di turisti che la stanno lentamente riscoprendo. Già, perché non v’è dubbio che ormai il capoluogo ligure sia a tutti gli effetti una città turistica, non più ibrido di progresso industriale e storia secolare, ma vera testimonianza di quello che è stato il suo ricco passato proiettato in un futuro promettente. La sua seconda primavera deve molto alla realizzazione del celebrato acquario, alla riconquista del suo water-front, alle ristrutturazioni per il tanto discusso G8 e agli interventi per la sua carica di Capitale Europea della Cultura, che nel 2004 condivise con Lille.
Ma dietro l’accattivante spettacolarità dei suoi monumenti più visitati c‘è molto di più: angoli talmente suggestivi da risultare quasi indescrivibili, la cui forza non è tanto quella di colpire al primo fugace contatto visivo, ma quella di riuscire ad ipnotizzare se gli concedete qualche attimo in più. Allora, potrà capitare che perdendovi (e credetemi, è facile che accada non solo in senso letterale) tra gli intricati vicoli del suo immenso centro storico, e volgendo lo sguardo verso l’alto, vi accorgiate di come tetti e spioventi disegnino pittoreschi profili in controluce sull’azzurro del cielo. Tendendo le orecchie non di rado verrete accompagnati dalle malinconiche note di qualche cantautore che non smetterà mai di raccontare le sue storie di amori proibiti, di vita e di morte. Gli artigiani orafi, ceramisti, gli antiquari e le piccole botteghe di prodotti gastronomici vi tenteranno ad entrare per scoprire il loro universo. Ad ogni angolo le prospettive cambiano e le sorprese allietano.
I contrasti sono forti, le asimmetrie complicate, e in alcuni punti della città, i secoli si rincorrono in uno sguardo: abbazie medioevali e palazzi signorili si specchiano nel groviglio di vetri e luccicanti metalli, che simboleggiano l’avvenenza e l’effimerità dei nostri tempi.
È una città multietnica, Genova, lo è sempre stata. Le sue strade sono una pennellata di vitalità di ogni colore. È inevitabile per un grande porto di mare che può sintetizzare in qualche centinaio di metri la più profonda ed eclettica essenza di tutto il Mediterraneo, qui, dove l’odore del salmastro si mescola ai profumi dell’Oriente; lo si può carpire in ogni espressione, nella sua cucina, nella sua cultura, nell’arte, nella musica, nella gente.
Gli spazi sono sempre stati preziosi, di sicuro perché sono sempre stati pochi. Questa è gente abituata a sfruttare ogni minima risorsa del territorio, a pescare in un mare insidioso e profondo, a coltivare su terre quasi verticali e a custodire gelosamente le proprie ricchezze, strette fra le montagne e il mare. Non si possono definire avidi, forse un po’ timidi e scontrosi, ma soprattutto eroici. Tutti figli suoi, poeti e navigatori, musicisti e architetti, santi e assassini…
Una delle visuali più spettacolari la si può avere, lasciando per un attimo i più battuti percorsi turistici e deviando verso il suo entroterra. Non c’è bisogno di allontanarsi troppo, basta prendere una delle funicolari che giunge ai limiti della città, sulle colline che la dominano, a due passi dalle sentinelle fortificate che la proteggono e ammirare il tremolio delle luci al crepuscolo, contare i secondi di buio che si alternano ai potenti segnali luminosi della lanterna, respirare profondamente e lasciarsi cullare dal tocco leggero dello scirocco.

Davide Battaglia, novembre 2004

sabato 30 gennaio 2010

Fino a nuovo incontro


Ogni volta che muoveva una delle sette pedine superstiti, a stento riusciva a non mandare all’aria l’intera scacchiera. All’appello mancavano entrambi i cavalli, una torre, un alfiere e cinque pedoni. Era in grossa difficoltà. Aveva sbagliato tutto a cominciare dall’apertura. Da sempre era consapevole della propria abilità ma questa volta la posta in palio era davvero alta e l’emozione gli aveva giocato un brutto scherzo. Sentiva quasi il sudore colare sulla fronte e attraverso quella spessa coltre di fumo poteva a malapena scorgere lo sguardo di Mr White e della donna che sbuffava alle sue spalle. Ne aveva giocate tante partite… non riusciva nemmeno a ricordarsi l’ultima volta che aveva perso e l’idea di perdere proprio questa, aveva un sapore così amaro da risultare insopportabile. Si guardava attorno come a cercare un’alternativa, una metaforica via di scampo, non sapeva esattamente perché. L’unica certezza era che non ci sarebbe stato modo di sfuggire alla realtà. Quando Mr White sferrò il suo ultimo attacco e costrinse, con il più classico dei tranelli, il suo re in scacco matto, la disperazione più profonda si impadronì della sua anima, o di quello che ne restava.
A questo punto si scostò il cappuccio, mostrando il suo colorito pallido ed estrasse dalla tasca uno dei due fogli che fino a quel momento aveva tenuto nascosto e, suo malgrado, iniziò a leggere: “A Mr Johnathan White, nato il 15 novembre 1947 a Glasgow, colpevole dal 1969 ad oggi dell’omicidio di 197 persone, meglio conosciuto come il Mostro di Birmigham, avendomi, in questo luogo e in questo giorno, battuto in regolare incontro di scacchi, è concesso di proseguire la vita terrena fino a nuovo incontro a data da destinarsi e comunque non prima di dieci anni a partire da ora. Firmato: La Morte”

Davide Battaglia, ottobre 2003

sabato 16 gennaio 2010

La grande guerra

Uomini al fronte nella terra dei confini

Titolo: La grande guerra
Regia: Mario Monicelli
Anno: 1959
Produzione: Italia
Durata: 130 min. (b/n)
Genere: commedia, drammatico

Il Friuli, terra accidentata di abissi carsici e strettoie impervie, ricolma di argomenti obbligati e ingorghi emotivi, è stato al centro di storie che, in maniera quasi ossessiva, discutono e fanno riflettere sul tema del confine, dei conflitti tra le minoranze, delle differenze tra identità politiche e sociali.
Una terra che rispecchia in pieno la conflittualità dell’animo dei suoi abitanti e delle opere artistiche che qui hanno avuto origine o che vi si sono alimentate. Sarebbe pretestuoso e inutile elencare il vasto numero di pellicole e romanzi che, soprattutto nel decennio tra la fine degli anni Quaranta e la fine dei Cinquanta, hanno raccontato e fatto riflettere sul tema della guerra e del confine, ma non è un caso come l’“estremo oriente” italiano sia quasi totalmente refrattario al tema della commedia.
Forse però il più importante lavoro cinematografico partorito in questi luoghi è stato, nel 1959,“La grande guerra” di Mario Monicelli, pellicola innovativa in cui il regista coadiuvato dalle splendide interpretazioni di Vittorio Gassman e Alberto Sordi, osò coniugare il dramma bellico proprio con quella commedia all'italiana tanto lontana dall’essenza aspra e lacerata del Friuli-Venezia Giulia, dissacrando per primo un tema tabù come la tragedia del 1915-18.
Un viaggio nel nostro passato, attraverso gli occhi di due soldati tutt'altro che eroici e passando per i luoghi che sono stati al centro di uno dei capitoli fondamentali della storia italiana, da Gemona a Sacile, da Udine a Pordenone, fino al mitico Piave, confine più ideologico che effettivo, ma che nell'immaginario comune rappresenta la vera linea di accesso-difesa alle terre giuliane liberate.
Sui monti della Carnia vennero scavati nella roccia chilometri di trincee, postazioni e gallerie. Sia gli italiani che gli austro-ungarici dovevano mantenere ad ogni costo la posizione e fu per questo che il conflitto si trasformò in una logorante partita di posizione su cime, selle, forcelle e cenge, dove si attendeva la mossa falsa dell’avversario. E se è pur vero che i soldati morivano in attacchi improvvisi o in difese disperate, spesso accadeva che il maggior numero di perdite lo si avesse per gli stenti causati dal freddo e dalla fame, da valanghe e slavine o dall’impietoso abbattersi dei fulmini sulle vette.
La bravura di Monicelli risiede soprattutto nel fatto di essere riuscito a mantenere un certo distacco in modo da non perdere mai di vista lo sfondo collettivo fatto anche di innumerevoli comparse locali, oltre che a scene di combattimento accurate e realistiche, ma conciliandolo con una partecipazione capace di catturare ogni sfumatura dell’anima e del volto dei due protagonisti che sfoggiano una comicità fatta di gag e dialoghi che si alterna in modo disarmante alla tristezza e allo sgomento che solo il grande teatro dell’assurdo in cui si svolge la guerra può mettere in scena.
Nata da un’idea di Luciano Vincenzoni, influenzata dal racconto “Due amici” di Guy de Maupassant, la pellicola ha il grande pregio di rappresentare per la prima volta sullo schermo la guerra depurandola da ogni possibile retorica fascista, in cui persisteva il mito di soldati eroici e valorosi pronti ad immolarsi per la patria, mentre nella realtà esistevano condizioni di vita miserevoli e grandi contrasti dettati dalle differenze di estrazione culturale e, in particolare, geografica, come era inevitabile per un Paese nato da così poco tempo.
Per questi motivi il film ebbe non pochi problemi con la censura sia durante la sua fase di lavorazione che al momento dell’uscita nelle sale. Fu una lettera di Giulio Andreotti, all’epoca ministro della difesa che, su richiesta del produttore Dino De Laurentis, tranquillizzò le associazioni dell’arma preoccupate fino a quel momento di essere oggetto di vilipendio e offesa da parte dell’opera.
Fortunatamente il film uscì ed ebbe un grande successo, tanto da ricevere il Leone d’oro alla Mostra del Cinema di Venezia e di essere candidato all’Oscar come miglior film straniero, ma ebbe anche il merito, riconosciuto ancora oggi, di diventare una delle migliori ricostruzioni, dal punto di vista storico, del cinema italiano sul conflitto mondiale.
Oggi, sono passati 90 anni, ma le montagne del Friuli restano una testimonianza indelebile con le loro trincee, i fortilizi, le mulattiere che, insieme ad altri reperti d'epoca, rappresentano un patrimonio storico irrinunciabile. Camminare su questa “linea di confine” ha un sapore tutto particolare, un sapore che deve richiamare il dolore e la sofferenza e che ci deve far ricordare sempre quanto sia stato alto il prezzo pagato dai nostri nonni per la pace e la libertà.

Davide Battaglia

giovedì 31 dicembre 2009

WE DIE YOUNG


Il viaggio senza ritorno degli Alice in Chains

Lo studio o il semplice sguardo di forme e pensieri lontani, sia dal punto di vista temporale che da quello geografico, può risultare difficoltoso per la mancanza di fonti appropriate, spesso mediate da interpretazioni distorte, oppure essere particolarmente agevole per il privilegio di un coinvolgimento marginale. Per chi ha vissuto la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta, nel pieno della propria adolescenza, entrambe le sopracitate prospettive appaiano però quanto mai lontane dalla verità.
Anche allora – correva l’anno 1991 – chi masticava un poco la musica, aveva l’impressione che quell’abusato ed estremamente localistico termine (sinonimo stesso della città di Seattle), fosse stato creato ad arte per arricchire discografici e mass-media. Già, perché tutti noi, mossi i primi passi in ambito hard-rock e metal, ci chiedevamo quasi ingenuamente cosa mai avessero in comune gente come Nirvana, Soundgarden o Pearl Jam. Quello che nessuno poteva negare era una sorta di allontanamento da un certo tipo di suono pulito che da qualche anno la faceva da padrone, a favore di un più marcatamente grezzo e sanguigno “sporco” che ricordava molto certe sonorità anni Settanta. Ecco come vedevamo noi il grunge, come un semplice ritorno al passato di un genere che stava attraversando un periodo di crisi, confermata dal crescente calo di popolarità e dalla latitanza di idee innovative.
Non c’era nulla di nuovo, di autentico, di elitario. C’era solo l’ennesimo manipolo di business-man che aveva fiutato l’affare; le stesse camicie di flanella erano una semplice necessità per gli abitanti delle boscose e fredde campagne dello stato di Washington, non certo una moda. Ed è forse anche per le frequenti piogge che i ragazzi preferivano chiudersi nei bar o nei sottoscala a stremare amplificatori e distorsori piuttosto che uscire e giocare a football. È probabile che perfino adesso, a quasi quattro lustri di distanza, sia in voga tra i giovani la stessa pratica. Peccato che a nessun discografico interessi più.

Ci sono stati gruppi, poi, che con il fenomeno grunge avevano ancora meno a che fare, dal momento che nelle loro produzioni appariva lontanissima la rabbia punk dei quasi dimenticati Mudhoney, considerati dalla maggior parte della critica, i primi esponenti del genere.
Semmai, il punto di contatto, risiedeva in un tono depresso e pessimista della poetica che accompagnava una musica che, a conti fatti, non aveva nulla di ribelle in quanto manifesto di decadenza nichilista e autodistruzione.
Alice in Chains, è l’epiteto di un malessere dichiarato al mondo intero. Ad un appassionato di cinema può ricordare il titolo di un B-movie appartenente al filone “women in prison” partorito dal calderone dell’explotion anni Settanta (in effetti gli esordi della band si rifanno molto al glam rock un po’ sessista stile Gun’N’Roses e Motley Crue), in realtà l’Alice in questione è una povera e martoriata creatura che lotta ostinatamente (e inutilmente) contro le pesanti catene della vita, la cui unica via d’uscita è quella di farsi imprigionare da catene ancora più pesanti.
Tempi dilatati, arpeggi sinistri e voce funerea ma al contempo feroce, sono gli elementi caratteristici di una parte della produzione degli Alice in Chains, inesorabilmente influenzata dal fantasma della tossicodipendenza del vocalist Layne Staley. I testi parlano di droga, morte, solitudine, non risultando mai come gratuito inno all’autodistruzione, ma piuttosto come drammatica e inascoltata richiesta d’aiuto.
Quando gli Alice pubblicarono Facelift, il loro primo album, Nevermind avrebbe dovuto attendere ancora un anno prima di vedere la luce e sconvolgere il mondo discografico. È il 1990, in quel periodo i Nirvana si muovono su coordinate vicinissime al punk, i Soundgarden scimmiottano Led Zeppelin e Black Sabbath, mentre i Pearl Jam non esistono ancora. Ecco che un gruppo nato nei celebri Music Bank della città statunitense, inizia a creare una forma per certi versi legata al metal mainstream, esasperandone però i lati più claustrofobici, spesso rallentando il beat, e inasprendola con toni cupissimi, quasi gotici, che si rifanno alla tradizione dark.

Gli artefici di questo particolarissimo sound fatto di oscure chitarre metalliche accordate quasi sempre in Dropped D (la sesta corda viene accordata in Re invece che in Mi, permettendo una maggiore estensione verso le note basse, oltre ad un suono più “pieno” nella tonalità di Re), unito a cupe e alienanti melodie generate dalla sovraincisione di molteplici linee vocali parallele, si chiamano Jerry Cantrell, talentuoso chitarrista e Layne Staley, geniale vocalist. Entrambi ottimi compositori, definirono in breve tempo il loro inconfondibile marchio di fabbrica insieme al batterista Sean Kinney e al bassista Mike Starr, sostituito nel 1993 da Mike Inez.
L’album d’esordio (Facelift, 1990), preceduto dall’Ep “We die young”, pone le basi alla produzione futura; si tratta di un disco a tratti ancora acerbo in cui spiccano già alcuni brani memorabili. Prima fra tutte le già citata e potente “We die young”, poi la sincopata ed epica “Man in the box” e la lunga e angosciante “Love, hate, love”, in cui ci si imbatte in un tempo lentissimo, dominato da suoni psicotici che raccontano una storia di sconsolazione, solitudine e ira. Il sound è solo abbozzato, ma già evidente: la chitarra di Cantrell corposa, e sempre in primo piano, si abbina alla voce di Staley che, nel pieno della sua veemenza giovanile, è capace di tracciare vocalizzi potentissimi e allucinati, anche se non ancora perfettamente rodati in termini di espressività. Il successivo Ep (Sap, 1992), contiene quattro brani (più una nevrotica ghost track), che stupisce pubblico e critica per la quasi totale assenza di arrangiamenti elettrici, un mini album infarcito da chitarre acustiche, pianoforte, leggere rullate di batteria e voce melodica, elementi che discostano il gruppo dalla semplicistica definizione di metallari.

Gli Alice conoscono un successo sempre crescente, accompagnato ovviamente da pressioni di ogni tipo. Iniziano i problemi con la droga, accentuati, nel caso di Layne, dalla figura di un padre alcolizzato e tossico che, dopo aver abbandonato la famiglia per parecchi anni, ritorna per poter sfruttare la popolarità e i soldi del figlio.
A questo punto, avventori del ghetto più disadattato dell’alternative nation, eredi in quanto a nichilismo e psicosi degli appena defunti Jane’s Addiction, gli Alice in Chains sfornano il loro capolavoro (Dirt, 1992). È il disco perfetto e al contempo manifesto del disfacimento in liquefazione dell’anima e del corpo. Non c’è tregua in Dirt, nessuna speranza di salvezza, nemmeno un attimo per respirare e già dal primo solco si è travolti da un granitico muro di chitarre e da un urlo di angosciante dolore che scaraventa in un abisso di decadente e inaudita violenza psicologica e sonora.
Ogni brano è un inno agli aspetti più espressivi del metal, dal fragore dei Metallica, all’oscurantismo dei contemporanei Soundgarden. Ogni testo parla di dolore e disperazione, di droga e solitudine. Sono le parole (facile a dirsi conoscendo l’epilogo della storia) di un uomo vulnerabile e della sua difficoltà a sbrigliarsi da una dipendenza più forte e invasiva di qualsiasi altra cosa: è l’inizio del viaggio senza ritorno.
L’anno seguente, rivela l’ennesima sorpresa: il quartetto, fresco di un nuovo bassista, sforna un altro Ep semiacustico (Jar of flies, 1994), questa volta però agli antipodi della scarna sobrietà di Sap. È un altro capolavoro, anche se lontanissimo dalla dimensione sonora più congeniale al gruppo. Il suono è ricolmo di arrangiamenti che sfiorano il barocco, facendo per la prima volta parlare di “grunge progressivo”, aperto a riforme armoniche di varia natura. Spiccano in particolare l’indolente incedere onirico dell’opener “Rotten Apple”, il poetico intimismo di “Nutshell”, la fiabesca “I stay away”.

I problemi di tossicodipendenza del vocalist maudit, si fanno sempre più gravi e circolano le prime voci di scioglimento. In realtà è proprio Staley a rompere il silenzio, durato più di un anno, pubblicando l’interessante “Above”, digressione di blues acido e psichedelico, insieme a McReady dei Pearl Jam e a Martin e Lanengan degli Screaming Trees, sotto l’appellativo di Mad Season.
Qualche mese più tardi esce un po’ a sorpresa quello che sarà l’ultimo lavoro in studio del quartetto (Alice in Chains, 1995). L’album, senza titolo, noto anche come “Tripoid” per via del triste cane a tre zampe rappresentato sulla cover, segna il totale abbandono a qualsiasi riferimento blues, perde in potenza rispetto al suo predecessore Dirt, guadagnando in umore cupo e atteggiamento oltremondano. È un perfetto esempio di post-rock strutturato, qualcuno scriverà che l’ascolto è un’esperienza simile alla contemplazione distaccata del proprio cadavere. Dal punto di vista musicale, si assiste forse a un leggero passo indietro; la stessa interpretazione del cantante non è all’altezza del passato (l’evidente affaticamento è in parte sopperito dal solito mare di sovraincisioni che, seppur sempre suggestive, celano parzialmente la difficoltà a reggere le linee melodiche più impegnative), eppure proprio qui, Cantrell e Staley raggiungono una maturità compositiva sorprendente, in cui la notevole profondità delle liriche, trova il giusto equilibrio con l’andamento plumbeo e funereo delle partiture strumentali.
Da questo momento in poi, resta solo il tempo per una manciata di concerti come spalla dei Kiss, per la registrazione di uno spettacolo acustico per Mtv, e per la solita e inflazionistica pubblicazione di raccolte di vario genere (a parte l’interessante cofanetto Music Bank, dove si possono ascoltare demo e brani inediti).
Le pessime condizioni di salute di Staley, associate a una depressione aggravatasi dopo la morte nel 1996 dell’unica ragazza che avesse amato, lo porteranno inevitabilmente in fondo al baratro, sancendo una prematura fine artistica che anticiperà di qualche anno la sua morte. L’artista fu trovato senza vita il 19 aprile 2002, a venti giorni di distanza dalla data del decesso. Vegeteva da tempo in completa solitudine destinato a un’uscita di scena triste e silenziosa, lontana dai clamori della più nota e idolatrata icona di Seattle.

Il rock ha avuto tanti figli spezzati dai loro stessi sogni… uno in più non cambierà certo la storia. Chi ha avuto la fortuna di conoscere Layne, però, può affermare che non possedeva nemmeno in minima parte l’ego ipertrofico della rockstar, “una persona troppo vulnerabile, nervo ipervibrante esposto ai dolori del mondo che non riusciva a reggerne l’onda d’urto”.
Nessun regista racconterà i last days di Layne, nessuna vedova lucrerà sulla sua immagine di dannato. Probabilmente, pochi si ricorderanno nei decenni a venire dei meriti di questa grande band. Rimane forse la magra e un po’ patetica consolazione di sapere che Alice ha finalmente spezzato le sue catene ed è volata via.

Davide Battaglia

sabato 5 settembre 2009

Chissa com'è...


La prima volta che mi innamorai è stato nell’autunno del 79. Grandi occhi marroni, una folta chioma di ricci biondi. Si chiamava Vanessa, ma a me ricordava tanto Shirley Temple. Fu per lei che smisi di fare i capricci e mi convinsi ad andare all’asilo.

La seconda volta che mi innamorai era la primavera dell’84. Ricordo l’esplosione colorata delle bancarelle e il mio papà che mi metteva al collo una sciarpa bellissima. Non come quelle orribili che la mamma mi costringeva a indossare per andare a scuola. Questa era blu, con tante righe; una bianca, una rossa, una nera, un’altra bianca. Ricordo un lungo e buio corridoio, un neon difettoso che si accendeva e spegneva, la mia mano stretta a quella grande e forte di mio papà e il cuore che mi batteva veloce.

Alla fine del corridoio, un’infinita distesa verde col suo intenso profumo di erba appena rasata e tanta gente, tantissima gente. Mai vista così tanta gente insieme prima di quel giorno.
Tutti presi a cantare, gridare e agitare enormi bandiere, colorate come la mia sciarpa.
Quando entrarono su quel grande prato i giocatori vestiti con gli stessi colori della sciarpa e delle bandiere, riconobbi subito la maglia della mia squadra. Era la prima volta che la vedevo dal vero, era bellissima, le foto sulle figurine dell’album non le rendevano giustizia. C’erano anche quelli dell’altra squadra, avevano la maglia a righe nere e blu. Mio papà mi disse che si chiamavano Inter… No, decisamente, non mi piaceva quella maglia, con solo due colori! Ero soddisfatto della mia scelta: tifare per la squadra con la più bella maglia che esistesse.
Mio papà mi prese sulle spalle, il rumore intorno era assordante, sembrava una festa. Non era Carnevale e neppure Capodanno, ma era ancora più bello.

La partita, sinceramente, non la ricordo. So che alla fine la gente non cantava più, anzi erano tutti arrabbiati e dicevano un sacco di parolacce. Avevamo perso due a zero, ma a me non importava molto, io ero felice lo stesso, avevo appena visto lo spettacolo più bello del mondo.
Dicono che l’amore sia una questione di chimica, che possa durare pochi anni, poi lentamente si affievolisce, lasciando spazio ad altri sentimenti, l’affetto, per esempio. Beh, io sono fortunato. Io faccio l’amore con la mia lei con la stessa passione, ogni domenica, da oltre 25 anni.
Quando mi vede lei mi riconosce subito perché da quel giorno indosso sempre la stessa sciarpa che mi regalò mio padre.

Davide Battaglia, maggio 2009

sabato 3 maggio 2008

Il ritorno di Martina


Fuori piove. Come allora, come quel pomeriggio di dieci anni fa. È una strana sensazione trovarsi qua da soli. A qualche migliaio di chilometri da quella che sarebbe casa mia. Da quella che sarebbe la mia città. Invece non ho più una casa, nessuna città mi annovera tra i suoi abitanti, nessuna famiglia attende il mio rientro per cena. Sono un’anima errante, un mendicante senza nome, uno dal quale è meglio girare alla larga. Non fosse altro per il lezzo che emano. Già… odoro di morte.

Questa è Brest, nord della Francia. Qui tutto è grigio. I palazzi, ricostruiti a tempo di record dopo i bombardamenti, così come il cielo. Anche le pareti della stanza sono grigie. Quasi, non si distingue differenza tra di esse e il panorama oltre la finestra. Una stanza densa di ricordi e malinconia. Malinconia per quello che poteva essere e non è stato.
E poi un numero. Tra cifre che mi hanno ossessionato per tutto questo tempo. Stanza 216, Hotel Ètoile, trecento metri dalla stazione.
È proprio vero che l’assassino torna sempre sul luogo del delitto. A volte capita subito. Magari mentre la polizia è intenta a fare i rilevamenti. A volte capita a distanza di anni per festeggiare una ricorrenza. Per esempio quella di essersi liberati di un marito scomodo e avere iniziato una nuova vita. Un motivo non da poco per far festa.


Certo, c’è qualcosa di macabro e morboso a voler scopare col tuo nuovo compagno mentre bevi champagne proprio dove mi hai ammazzato, ma sapevo che prima o poi saresti tornata. Ho sempre sospettato che fossi una puttana sadica, ma, mea culpa, ti amavo. Ora, cara Martina, è arrivato per me il momento dell’eterno riposo, è arrivato il momento di vendicare la mia morte. Ho atteso dieci anni, ma per uno spirito condannato al limbo sono un periodo appena sufficiente a prendere coscienza del proprio stato di trapassato.
Mi basta penetrare il tuo petto con la punta delle dita e cercare il tuo cuore. Affondare, stringere forte, bloccare il tuo sangue, fermare il tuo respiro. Osservare il tuo corpo nudo irrigidirsi mentre sei sopra di lui. Non è un orgasmo, bambina. Stai morendo.

Non ho neppure il tempo di incrociare la tua anima, se mai ne hai posseduta una, che qualcosa mi trascina fuori da qui. Inizio la mia discesa all’inferno, o almeno suppongo. Non riesco nemmeno a vedere la tua espressione corrugata e stupita. Probabilmente ci sei rimasta male. Non era una cosa che avevi programmato. Morire. Qui e ora. Addio Martina, questa volta per sempre.
Continua a piovere, ma va bene così. Ho sempre desiderato andarmene da qui con un bel temporale.

Componimento di Davide Battaglia (gennaio 2006)
Concorso "SANguinario VALENTINO" 2a edizione www.latelanera.com

sabato 8 marzo 2008

Pink Floyd, live at Pompeii

Echi di un passato sepolto

È un timore reverenziale quello che scaturisce dalla visione del profilo del Vesuvio, determinato dalla consapevolezza che il “vulcano degli dei” non ancora domato, è chiuso da un tappo di rocce, ceneri e polveri che si sono accumulate dal 1944, data della sua ultima eruzione, a oggi.
Il Vesuvio è prima di ogni altra cosa un simbolo che rappresenta l’anima di questo luogo intriso di misteri iniziatici legati alla morte e alla rinascita, e che parla attraverso le genti e gli avvenimenti.
Attorno ad esso nacquero e si diffusero i culti di Dioniso e di Cibale, la dea col tamburo, prima, e delle Madonne, dopo. Una terra popolata da miti e leggende, densa di storia e cultura, che trova la sua testimonianza più importante nei resti della città di Pompei. Qui il tempo si è fermato quasi 2000 anni fa, nell’istante in cui il Vesuvio ha scatenato la sua più violenta eruzione, immobilizzando ogni cosa, animata e non, si trovasse sulla traiettoria della sua indomabile furia.
Tra le rovine di palazzi e ville, strette strade lastricate di basalto, affreschi e mosaici, e osservando i calchi dei corpi degli sfortunati abitanti, si respira un’atmosfera surreale e quasi ultraterrena.
La particolarità e il fascino mistico di questo sito hanno senza dubbio contribuito al successo di una delle operazioni musicali (e cinematografiche) più riuscite nella storia della musica leggera. Agli albori degli anni Settanta, quattro ragazzi londinesi rispondenti al nome di Pink Floyd ricevettero l'offerta di girare un film-concerto, pratica abbastanza consueta, in quel periodo, per un gruppo di successo mondiale. Ma la musica dei Floyd era quanto di più anticonvenzionale esistesse all’epoca nel panorama del rock e, in accordo con il regista Adrian Maben, fecero una scelta all’altezza della loro fama sia per quanto concerneva la location, sia per quello che riguardava l’esecuzione.
Il film, Pink Floyd, Live at Pompeii, registrato nell’anfiteatro della città-museo resta ancora oggi un passaggio memorabile (e unico) della storia del rock. Realizzato nell'era dei concerti megalitici con migliaia di spettatori, ha invece la peculiarità di essere eseguito in uno spazio vuoto, senza pubblico, se non quello delle silenziose opere architettoniche pompeiane, per poter raggiungere la massima purezza di suono consentita.
La musica sublime dei Pink Floyd, l’avveniristica regia di Maben e la magica bellezza del luogo rendono questo concerto un mosaico di suoni e immagini evocative.
Non si può rimanere impassibili di fronte a una simile potenza visionaria. Le parole si perdono nel vento come gli incandescenti vapori che fuoriescono dalla terra, i suoni, ora dolci, ora taglienti, avvolgono come lava e fendono come lapilli, le pelli dei tamburi scosse vorticosamente richiamano la voce del vulcano, mentre la cenere lentamente ricade sulla superficie delle cose accompagnando i titoli di coda.
La scaletta dei brani: Echoes part I, Careful with That Axe Eugene, A Saucerful of Secrets, Us and Them, One of These Days (I'm Going to Cut You), Set the Controls for the Heart of the Sun, Brain Damage, Mademoiselle Nobbs, Echoes part II.

Davide Battaglia